Sul rifinanziamento della missione la sinistra radicale è nell’angolo, temendo i voti favorevoli dell’opposizione che consentirebbero l’approvazione del provvedimento. D’Alema avverte: “La maggioranza deve essere autosufficiente”.
Acque sempre più agitate nella maggioranza per il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan. La questione, probabilmente, comincerà ad essere affrontata già nel Consiglio dei Ministri di oggi (25 gennaio), dove potrebbe essere varato (anche se con il voto contrario o l’astensione dei tre ministri della sinistra) un decreto sulle missioni militari all’estero, con un testo che dovrebbe poi essere modificato successivamente da un tavolo tra i vertici dei partiti dell’Unione: in realtà la vera discussione si aprirà la prossima settimana e nel frattempo l’Unione cercherà di trovare un punto di mediazione che, però, sembra davvero complicato da raggiungere. Anche perché adesso è la sinistra, a guardare al voto sull’Afghanistan come ad una sorta di banco di prova per la tenuta della coalizione che sostiene l’esecutivo di Romano Prodi.
La parola d’ordine, infatti, nel centrosinistra rimane sempre la stessa: la maggioranza deve essere autosufficiente. Tradotto: l’Unione deve essere in grado di approvare il rifinanziamento della missione a Kabul con le proprie forze, senza il supporto determinante dell’opposizione. Un concetto che Massimo D’Alema sta ripetendo da giorni e su cui ieri è tornata anche l’agenzia a lui vicina, la “Velina Rossa”, ribadendo che: “Non siamo noi a esagerare quando denunciamo la pericolosità del voto sul’Afghanistan per l’attuale maggioranza di centrosinistra. Con una serie di polemiche sterili ci pare che si stia giocando con l’esistenza del governo”. E a rincarare la dose ci ha pensato poi anche il capogruppo ulivista alla Camera, Dario Franceschini, confermando che “In politica estera i voti dell’opposizione devono essere sempre aggiuntivi, mai determinanti”. Si tratta dell’ennesimo segnale rivolto alla sinistra ovvero: o la maggioranza è tale sempre, e dunque anche sull’Afghanistan, oppure le cose possono cambiare, su ogni tema.
Messaggi che hanno messo in allarme le forze della sinistra, ora chiuse in un angolo. Da una parte, Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi hanno l’obbligo verso il loro elettorato, già sul piede di guerra per la questione della base americana di Vicenza, di portare a casa un risultato concreto sull’Afghanistan, se non il ritiro immediato almeno una svolta. Dall’altra, i partiti massimalisti hanno il timore che la corda a furia di essere tirata possa spezzarsi, ossia che, non potendo contare sui consensi dell’ala radicale, l’Ulivo accetti la sponda del centrodestra che, ovviamente, per senso di responsabilità verso i soldati inviati in terra afgana quando era al governo, voterà favorevolmente al rifinanziamento della missione. Uno scenario, questo, che inquieta molti esponenti della sinistra. Se i voti, e i veti, di Prc, Pdci e Verdi, sull’Afghanistan, fossero bypassati dal resto della maggioranza con l’alternativa dei voti dell’opposizione si potrebbe creare un precedente molto rischioso, con la formazione di “maggioranze variabili” a seconda dell’argomento. In pratica, se trovasse applicazione concreta l’idea che in politica estera sono possibili tali “maggioranze variabili” lo schema potrebbe poi essere ripetuto su altri terreni, come quelli dei temi etici e economici, vanificando così il potere di veto dei singoli partiti, soprattutto quelli della sinistra.
Da qui il rilancio della proposta intermedia tra la permanenza in Afghanistan e il ritiro immediato: l’exit strategy, la calendarizzazione dell’uscita dalla missione, magari con una data piuttosto lontana, tipo ottobre o novembre come suggerito qualche giorno fa da Pecoraro Scanio. Una soluzione intermedia che potrebbe permettere alla sinistra di portare a casa un mezzo risultato da spendere subito con il proprio elettorato.