CASAL DI PRINCIPE. «Ve la racconto io la vera Gomorra. Roberto Saviano ha scritto la verità, ma è una briciola. Io quelle cose le ho raccontate dieci anni prima».
Magro, un maglione addosso, unghie rose dal nervosismo, occhi chiari e vispi, capelli bianchi: per la prima volta parla il super pentito di camorra Carmine Schiavone, 66 anni, accusato di concorso nell’omicidio di oltre 50 persone, condannato a 8 anni di arresti domiciliari scaduti nel 2001 grazie ai benefici riconosciuti ai pentiti, e pilastro del processo anticamorra Spartacus.
Quando racconta è nel suo ultimo covo in provincia di Viterbo. Finora ne ha cambiati otto. Poi partirà per l’estero. Da quando nel ’93 ha cominciato la sua seconda vita di collaboratore di giustizia ha vissuto nel segreto, illuminato solo dai riflettori delle aule di tribunale dove ha testimoniato, incastrando capi e gregari dei clan, facendoli condannare alla prigione a vita. Carmine Schiavone è un fiume in piena. Voglio parlare – dice – Da tre mesi è scaduto il mio “contratto” col Servizio centrale di protezione. Sono sotto scorta solo quando devo essere presente in qualche processo.
Perché ha deciso di rilasciare questa intervista?
«Sono deluso, non dai magistrati ma da altri dello Stato. Le cose sono andate bene quando il Servizio lo dirigeva l’attuale capo della Polizia, Antonio Manganelli. Poi sono cominciati i guai. Io parlavo alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli e il giorno dopo i clan avevano i miei verbali. Nel ’96 un maresciallo dei carabinieri ha cercato di avvelenarmi. A Vasto hanno tentato di sequestrare mia moglie e uno dei miei figli. Ogni volta che trovo un nascondiglio escono fuori informazioni che lo bruciano. L’ultimo caso è il mio arresto nel Viterbese».
Cioè?
«La sera del 22 dicembre arrivano i carabinieri, fanno una perquisizione e trovano un fucile e una pistola di proprietà di uno dei miei figli (ne ha sette, due femmine e cinque maschi, ndr). Mi portano al carcere di Mammagialla dove non ci sono zone protette per i pentiti. Dormo vicino alla polizia penitenziaria, per sicurezza mangio i pasti della loro mensa. Poche ore dopo arriva il Gip di Viterbo: il giorno dopo sono fuori. L’arresto non viene convalidato. Mi ha denunciato mio figlio Vincenzo, 35 anni. È impazzito per una romena divorziata e con due figlie. Lui vuole i soldi della mia eredità. Vincenzo però è schizofrenico. Stava per uccidere sua madre con un cuscino in faccia. L’altro mio figlio, Federico, lo voleva affogare. Gli ho detto: i soldi non li avrai mai».
Qual è la sua paura?
«Ho fatto 84 processi, ne devo fare 36 in Corte d’assise. Ho fatto condannare 1.200 persone. Altri 25 processi per 60 omicidi sono in fase istruttoria. Ai magistrati che imbastirono le indagini con le mie rivelazioni dissi: attenzione a battezzare il fascicolo col nome di Spartacus. Spartaco lo misero in croce. Nel Servizio ci sono tante persone oneste, ma anche altre di cui non mi fido affatto».
La camorra la sta braccando?
«Certo, se mi trovano mi ammazzano. Vogliono togliere di mezzo me e il giudice Federico Cafiero de Raho (del processo Spartacus, ndr). Se li vedo li uccido, sono pronto a difendermi. Ma con queste fughe di notizie i killer vengono portati per mano fino a me».
Perché è diventato camorrista?
«Per combattere Raffaele Cutolo, poi avevo la capa “vuoto a perdere”. Oggi lo capisco, era arroganza giovanile. Cutolo cercò di arrivare nella provincia di Caserta coi capizona che furono eliminati o assorbiti. Eravamo gente di campagna, più decisa, sapevamo che nell’urto con noi Cutolo sarebbe stato distrutto. Ee infatti è stato distrutto. Di questo ne approfittò Nuvoletta. Ma la guerra contro Cutolo la vinse Bardellino».
Come è arrivato al pentimento?
«Ho creduto nella giustizia, a volte però dico che non lo rifarei più. E poi mi sono pentito per il mio ultimo figlio, tenuto a battesimo da mio cugino Francesco Schiavone, detto Sandokan, come io ho tenuto a battesimo suo figlio Carmine. Loro dovevano essere i due futuri capi. Io fui “venduto” da mio cugino Walter, da mio nipote Sebastiano, dai miei figli Mattia e Vincenzo e da mio genero Nicola Panaro: misero delle armi da guerra nella calcestruzzo di mia proprietà, chiamarono i carabinieri e fecero arrestare me e mio figlio Maurizio. Poi, mentre ero in carcere sottoposto al 41 bis, ho mandato ambasciate al clan con un infermiere da me corrotto e loro all’infermiere hanno detto: “Avvelenalo”».
Il motivo della condanna a morte?
«Perché nel ’91 mi volevo ritirare: mio cugino Sandokan era in carcere, Marione (Iovine, ndr) era stato ammazzato, c’era la guerra coi De Falco, i Bardellino, i Nuvoletta, i Venosa. Mio cugino Walter stava costruendo un castello come Scarface. La gente si rivolgeva a me, chiedeva aiuto. Io dovetti togliere i soldi per pagare gli affiliati, gli avvocati. E poi ero assolutamente contrario al traffico di fanghi radioattivi provenienti da Germania, Francia, Gran Bretagna e Cecoslovacchia. Ci sono 5 milioni di persone che moriranno per lo sversamento di quei rifiuti in Campania, Sicilia, Basilicata e Puglia. Bidognetti e mio cugino Sandokan prendevano 600 milioni al mese, ma nelle casse del clan ne mettevano solo 100. Dissi: “Voi siete scemi, avete avvelenato la terra di Casale, San Cipriano, Casaluce”. Quei quattro cafoni non si rendevano conto che quella roba uccideva anche noi. Rispondevano: “Tanto noi beviamo l’acqua minerale”».
Chi comanda tra i Casalesi?
«Mio cugino Sandokan, anche se è in carcere. Poi ci sonoAntonio Iovine, Michele Zagaria, Giuseppe Setola. Ma senza il nulla osta di Sandokan non muoverebbero una mano, un piede».
Nel Lazio, a parte la zona a sud, dove fa affari il clan?
«A Viterbo, a Roma, attraverso prestanomi gestiscono le sale gioco. A Latina ho fatto sequestrare nostri beni».
Ristoranti e pizzerie?
«Dietro c’è Iovine, ma gestisce anche forniture di bufala e boutique».
La banda della Magliana?
«È sparita, è spezzettata. Fino al ’93 è stata il braccio armato di politici, servizi segreti e mafia, era un esercito irregolare che però si faceva i fatti suoi con droga e usura».
È cambiata la camorra?
«Oggi i soldi non sono più come una volta. Io insegnavo ai miei che il popolo deve sostenerci per amore e non per terrore. In qualunque casa andassero non dovevano fare schifezze. Oggi il popolo si è spaccato: una parte è compromessa. I più onesti scappano. Ma anche fuori si paga il pizzo. All’epoca dicevo che il clan doveva creare degli insospettabili, i ragazzi dovevano laurearsi, fare gli avvocati, i magistrati. Per tenere buona la gente davamo case, facevamo favori. Però in campagna elettorale le persone dovevano votare come volevamo noi. Chi non lo faceva era avvertito: fa come diciamo o bruciamo dove lavori con te dentro. I nostri uomini non dovevano prendere i vestiti dai negozi, altrimenti gli toglievamo l’equivalente dalla paga mensile e venivano pure mazziati. Le case dovevano rimanere aperte senza problemi. A Casal di Principe avevamo bisogno della complicità di tutti, la gente doveva parlare bene di noi. I latitanti trovavano ospitalità ovunque, per mangiare e dormire. Era vietato nel modo più assoluto guardare le donne degli altri. Davamo sicurezza. Nel 1983 due zingare vennero fermate vicino all’acquedotto di Casale. Andammo io e Sandokan. Gli zingari avevano cominciato a rubare. Entrai nel campo e chiesi: “Dov’è il capo?”. Guardai l’orologio e gli dissi: “Avete un quarto d’ora di tempo per smontare l’accampamento e sparire da questa zona, se no vi ammazziamo tutti”. Gliel’ho detto dolcemente».
È stato affiliato a Cosa nostra?
«Sì, col gruppo dirigente, sin dagli anni ’70».
Si sente un “uomo d’onore”?
«Non come mafioso, ma coi miei principi, che però cercano di soffocare in tutti i modi».
Chi?
«Al Servizio centrale non interessa la persona onesta. Vogliono lo schiavo da poter giostrare. Il Servizio è inutile, perché ciascuno di noi si costituisce dai carabinieri, dalla polizia o alla Finanza».
Ai magistrati ha detto tutto quello che sapeva?
«L’ho detto ai giudici: ho ancora un 10 per cento di cose da dire, ho altri 40 ergastoli da far prendere. Ho consegnato un dossier a un notaio, un ex ufficiale di Marina. Gli ho detto che se mi uccidono deve mandare tutto alla Bild, in Germania, e a ufficiali della polizia tedesca».
Perché un giornale tedesco?
«In Italia non lo pubblicherebbero. Da me i politici facevano anticamera. In carcere mi venivano a trovare. Li ho creati. Li benedivamo sotto le piante di limone».
Ora dove stanno?
«Parecchi sono portaborse a Roma, sono di tutti i partiti».
Si può debellare la camorra?
«Ho fatto 20 anni di scuola, 30 anni di alta mafia, 16 anni di servizio permanente effettivo in mezzo alle forze dell’ordine. Nel ’94 i magistrati avrebbero potuto fare piazza pulita ma andarono troppo lenti. Fu buttato un virus nei computer della Dia per cancellare le mie deposizioni. Dovette intervenire la Cia. C’è un floppy sulle banche, non è mai uscito. Fu dato in custodia a un maresciallo che aveva l’ordine di sparare a vista a chiunque avesse tantato di impadronirsene».
Ora chi ce l’ha?
«Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Quel dischetto non lo tireranno mai fuori. I camorristi, quei quattro cani napoletani, si possono portare di nuovo alle origini. La politica però si serve della criminalità, perché nei momenti opportuni le scarica le colpe addosso. Ma senza appoggi dello Stato come potrebbe sopravvivere un’organizzazione criminale? Come potrebbe sfuggire alla cattura per 14 anni un Michele Zagaria, che ha la quinta elementare, ha faticato sempre sopra il camion e la pala meccanica? Senza lo Stato la camorra non sarebbe potuta esistere».
da “Il Tempo”, di Fabio Di Chio e Dario Martini