Omicidi di camorra, testimoni in aula

di Redazione

TribunaleCASAL DI PRINCIPE. Prosegue a fatica, tra tante ritrattazioni, «non so» e «non ricordo», il processo denominato «Anni ’90», volto a far luce sul «Gruppo Mendico», quello che secondo l’Antimafia sarebbe stato una costola dei Casalesi .

Per oltre dieci anni avrebbe operato nel sud pontino, e sugli omicidi di Giovanni Santonicola e Rosario Cunto, considerati dagli inquirenti esecuzioni di camorra. Ieri, davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Latina, presieduta dal giudice Raffaele Toselli, a latere Maria Teresa Cialoni, sono stati esaminati dieci testimoni, che hanno risposto alle domande del pm della Dda di Roma, Diana De Martino, e del collegio difensivo, composto tra gli altri dagli avvocati Enzo Biasillo, Mariano Giugliano, Angelo Palmieri e Michelangelo Fiorentino.
L’esame più lungo è stato quello di Nicoletta D’Alterio, moglie dell’ex sindaco Antonio Cassetta e legata sentimentalmente a Santonicola, l’imprenditore ucciso il 9 settembre 1990, secondo l’Antimafia come ritorsione dei Casalesi per gli omicidi di Alberto Beneduce e Armando Miraglia, compiuti a Sessa Aurunca. La donna ha aggiunto poco sull’estorsione che avrebbe subìto il marito negli anni ’90 e, per quanto riguarda invece il giorno in cui venne trovato carbonizzato nell’auto il corpo di Santonicola, ha riferito che stava cercando l’imprenditore per l’ora di pranzo e che quando ha saputo della sua morte, con un compare della vittima, si è recata a Mondragone, dove insieme a Santonicola aveva conosciuto Augusto La Torre. Quest’ultimo, che lei sapeva amico di Santonicola, dopo lunga attesa in una pescheria l’avrebbe ricevuta soltanto per un minuto, lei gli avrebbe chiesto i nomi degli assassini e se fosse per lui possibile indagare per sapere esecutori e movente, ma La Torre si sarebbe mostrato insolitamente freddo alla notizia dell’omicidio. È stata quindi la volta dei fratelli della vittima, Silvestro e Raffaele, i quali hanno parlato del ritrovamento del cadavere e del riconoscimento della salma, negando però anche che un carabiniere gli avrebbe riferito in quella circostanza di aver visto il fratello, alle 10.30 del mattino, con Orlandino Riccardi. Hanno affermato di non avere avuto particolari contatti con il fratello e di non conoscere gli imputati. Giuseppe Viccaro, titolare di una ditta di movimento terra, ha invece negato di aver subìto estorsioni dal clan Mendico, riferendo invece che Mendico gli aveva offerto lavoro. E nessuna accusa circa le estorsioni anche da parte degli imprenditori Luigi Mallozzi e Macera. L’allora comandante della stazione dei carabinieri di SS. Cosma e Damiano, Bovenzi, ha parlato dell’organigramma criminale da lui ricostruito all’epoca e delle frequentazioni tra gli imputati, mentre il maresciallo Poscia ha raccontato del ritrovamento dell’auto con il corpo di Santonicola. A parlare dell’omicidio di Rosario Cunto, secondo l’Antimafia ucciso il 27 aprile 1990 da Ettore Mendico, Antonio Antinozzi e Luigi Pandolfo, per vendicare la morte del nonno di Mendico, assassinato 29 anni prima proprio da Cunto, i quali poi ne avrebbero fatto sparire il corpo, sono stati il maresciallo Campoli e il datore di lavoro della vittima della presunta «lupara bianca», Giuseppe Mendico. Il maresciallo Campoli ha dichiarato che il giorno stesso in cui sparì Cunto la moglie di quest’ultimo vestì a lutto. Mendico ha invece detto di conoscere i precedenti di Cunto, del fatto che fosse un sorvegliato speciale e dell’assassinio del nonno di Mendico, ma che come fabbro, sul lavoro dunque, non c’erano mai stati problemi.
Il processo agli undici – Ettore Mendico, Orlandino Riccardi, Antonio Antinozzi, Domenico Buonamano, Luigi Cannavacciuolo, Antonio La Valle, Maurizio Mendico, Luigi Pandolfo, Giuseppe Ruggieri, Giuseppe Sola e il latitante Michele Zagaria – riprenderà tra due settimane, con l’esame di altri testimoni.

Il Tempo (Clemente Pistilli)

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