AVERSA. Erano andati a Milano per mettere la vita del figlio nelle «mani migliori». La fiducia riposta negli istituti sanitari più prestigiosi del Nord Italia ha, però, tradito un ragazzo di 30 anni, ucciso, dicono i familiari, da una diagnosi sbagliata.
Ad Aversa la malattia era stata individuata subito, nel 1998: un linfoma di Hodgkin, successivamente inquadrato, invece, come una sindrome curabile in 6 mesi.
L’errore, reiterato nel tempo, costò 6 anni di cure sbagliate e di viaggi della speranza inutili. A raccontare la storia è Salvatore Russo, il padre di Domenico, morto nel 2006. Sessantuno anni, una vita alle spalle in ospedale, da infermiere, l’uomo è convinto che il decesso del figlio sia dovuto ad un errore. Ha ricostruito da solo il percorso sanitario di Domenico e ha fatto causa all’Istituto nazionale dei tumori e al San Raffaele di Milano.
Una perizia del tribunale di Santa Maria Capua Vetere gli ha dato ragione; adesso chiede tre milioni di euro, «una cifra ricavata dal tariffario», spiega il legale. La tragica ‘cantonatà dei medici, nel racconto di Salvatore, suona come un paradosso: «Al Moscati di Aversa diagnosticarono a mio figlio un sospetto linfoma, la malattia di cui poi è morto, 6 anni dopo. Non è stato mai curato per la malattia che aveva però. E questo perchè all’Istituto nazionale dei tumori, dove lo portammo per essere certi che ricevesse le cure migliori, la diagnosi improvvisamente cambiò. E il San Raffaele perseverò in quell’errore».
«Mio figlio è stato curato per 6 anni – ecco la causa del tormento – per una sindrome che avrebbe dovuto andar via in sei mesi, la sindrome di Kikuchi. Me lo hanno ucciso a Milano». L’abbaglio denunciato da Russo trova una conferma nell’accertamento tecnico preventivo firmato da un consulente sanitario del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Oscar Nappi. «Della morte di Domenico – spiega l’avvocato Giulio Costanzo, che segue il caso – dovranno rispondere l’istituto nazionale dei tumori per il 25%, il San Raffaele di Milano per il 50%.
Responsabilità vengono attribuite, per le cure sbagliate fra il 2002 e il 2003, anche al Moscati di Aversa per il 15%, e al Monaldi di Napoli il 10». Si parla di «imperizia, imprudenza, negligenza, dei vari istituti che ebbero in cura il ragazzo, oltre che di un problema di comunicazione», aggiunge. La morte di Domenico colpisce una famiglia che nella tragedia vive anche i disagi di una profonda indigenza.
«Ho debiti per 75 mila euro. Guadagno 1500 euro al mese, e non me ne rimangono più di 300 per sopravvivere», racconta Russo, che soffre di una depressione e non riesce a ripercorrere la sua storia, dopo molti anni, senza piangere. «Quando al Policlinico di Napoli della Federico II – dice con amarezza – ci dissero che mio figlio aveva un linfoma, che aveva ormai colpito il 70% del corpo, non c’era più niente da fare. Morì subito dopo una primo ciclo di chemioterapia».
«Mi hanno ammazzato mio figlio, questo è quello che è successo. Non mi darò pace finchè non si riconoscerà quell’errore. – conclude Russo – Quello che è accaduto a noi non deve succedere agli altri».
da “Il Mattino”, giovedì 2 luglio 2009