NAPOLI. Francesco Rea, 45 anni,considerato il reggente del clan Veneruso-Rea esfuggito alla cattura lo scorso 4 novembre, è stato arrestato dai carabinieri di Castello di Cisterna.
Luomo, detto “‘O Pagliesco”, originario di Casalnuovo di Napoli, dove il clan esercita la sua influenza criminale, era ricercato da un anno e mezzo, e ritenuto ufficialmente latitante dallo scorso 6 ottobre, quando la procura aveva emesso un ordine di carcerazione. Deve scontare tre anni di reclusione per reati vari.
“Venere Rossa”, è il nome dell’operazione che il 4 novembre ha visto 200 agenti della Dia e carabinieri di Napoli eseguire quindici ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 14 persone legate al clan Veneruso-Rea e accusate di associazione mafiosa, usura, estorsioni ericiclaggio di denaro. Sequestrati anche una vettura blindata del capoclan, tre Rolex d’oro e 10mila euro in contanti.
Altre sedici indagati erano stati invece denunciati in stato di libertà perché ritenuti dei fiancheggiatori del clan camorristico che, come emerge dalle indagini, investiva il denaro sporco in attività lecite non solo nel napoletano ma anche in Emilia Romagna. Eseguite perquisizioni in particolare nella provincia di Cesena, dove risiedono alcuni degli indagati. Tra gli arrestati Francesco Rea junior, nipote del capoclan Francesco.
Ora si cerca la “cassiera” dell’organizzazione, che si era sottratta all’arresto assieme a Rea.
Linchiesta che ha portato allazzeramento della cosca è partita grazie alla collaborazione di un pentito che ha consentito agli inquirenti non solo di scoprire e bloccare centinaia di estorsioni cui venivano sottoposti imprenditori e negozianti della zona. Infatti,è stata anche smantellata una sorta di onorata “previdenza” mafiosa. Il clan come società per azioni:i capi incassavano stipendi fino a 15mila euro, mentre i gregari non più di di 1500 euro. Degli oltre 200mila euro che mensilmente finivano nelle casse dei camorristi, una quota veniva (dai 1500 ai 5mila euro cadauno) devoluta alle famiglie degli affiliati finiti in carcere, soprattutto per non farli collaborare con la giustizia.