CASERTA. Gli uomini della Dia di Napoli hanno arrestato lavvocato casertano Michele Santonastaso, che durante il processo di appello Spartacus lesse un proclama contro lo scrittore Roberto Saviano, la giornalista Rosaria Capacchione ed il giudice Raffaele Cantone.
Santonastaso nel processo Spartacus difendeva i boss Francesco Bidognetti (nella foto), alias Cicciotto e mezzanotte, detenuto, e Antonio Iovine, detto O Ninno, latitante da 15 anni. Insieme a lui hanno ricevuto unordinanza di custodia cautelare anche Michele Bidognetti, fratello di Francesco, e il boss napoletano del quartiere Vomero Luigi Cimmino, entrambi già detenuti.
In particolare, lavvocato avanzò istanza di ricusazione del Collegio giudicante leggendo una lettera, a nome dei suoi assistiti, capi del clan dei Casalesi e imputati nel processo, secondo la quale la Corte si lasciava influenzare dalle opinioni dello scrittore, della giornalista e del magistrato. La lettera fu interpretata come minatoria e da allora sono state intensificate le misure a tutela dei tre.
I provvedimenti, disposti dal gip su richiesta dei pm Antonello Ardituro, Francesco Curcio e Alessandro Milita, riguardano i reati di corruzione, falsa testimonianza e falsa perizia, nellambito di uninchiesta che verte sugli espedienti adoperati per agevolare affiliati ai clan Bidognetti, Cimmino e La Torre, questultimo attivo nella zona di Mondragone ma negli ultimi anni ridotto ai minimi termini dagli arresti.
In particolare,gli investigatori hanno ricostruitodue distinte vicende, grazie alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e ad intercettazioni ambientali e telefoniche. La prima relativa alIa falsa perizia depositata nel processo di appello per il duplice omicidio in danno di Enrico Ruffano e Giuseppe Consiglio avvenuto a Napoli il 28 aprile 1999, utile a scagionare gli imputati Aniello Bidognetti e Vincenzo Tammaro. La seconda attinente alla costruzione di un falso alibi, in concorso con I’imprenditore nel settore dei latticini Giuseppe Mandara, utile a scagionare Augusto La Torre dall’accusa di aver preso parte al duplice omicidio di Luciano Roselli e Salvatore Riccardi, scomparsi il 27 marzo del 1990.
Le indagini venivano avviate dalle dichiarazioni di più collaboratori di giustizia che riferivano che Aniello Bidognetti, Luigi Cimmino e Vincenzo Tammaro (il primo esponente del clan dei Casalesi e gli altri due rispettivamente capo e partecipe del clan Cimmino), non solo avevano organizzato ed eseguito il duplice omicidio in danno di Ruffano e Consiglio ma che, seppure (in particolare il primo ed il terzo), intercettati durante le fasi preparatorie, contestuali e immediatamente successive al delitto, erano stati assolti a fronte di un versamento di denaro in favore del perito che aveva avuto incarico dalla Corte di Assise di Napoli di identificare coloro che avevano preso parte alle compromettenti intercettazioni. In sostanza, quindi, secondo i collaboratori (tutti vicini, a vario titolo, agli imputati di quel processo) il perito corrotto aveva “aggiustato” il processo depositando una perizia nella quale falsamente attestava che le voci captate nel corso delle decisive intercettazioni telefoniche non corrispondevano a quelli degli imputati Aniello Bidognetti e Vincenzo Tammaro. Tale perito veniva identificato in Alberto Alfio Natale Fichera, già destinatario, circa un anno fa, di ordinanza di custodia cautelare per lo stesso fatto, e successivamente scarcerato per ragioni di salute.
L’attività di riscontro partiva dalla acquisizione degli atti processuali relativi al duplice omicidio Ruffano-Consiglio il cui dibattimento era stato celebrato innanzi alIa prima sezione della Corte di Assise di Napoli nell’ambito del procedimento penale (n.22/01 RG) a carico di Aniello Bidognetti, Luigi Cimmino, Giuseppe Cristofaro e Vincenzo Tammaro. Risultava che tutti gli imputati tratti a giudizio innanzi alla citata Corte di Assise, erano stati raggiunti da occe, confermata innanzi ai diversi organi giurisdizionali – che, come ricordato dai collaboratori di giustizia, risultava, effettivamente, trarre il proprio fondamento dallo svolgimento di intercettazioni telefoniche nel corso delle quali venivano captate le voci di coloro i quali avevano organizzato ed eseguito il delitto.
La Dda già all’epoca, cosi come la stessa polizia giudiziaria, non aveva avuto dubbi sulla riconducibilità di quelle utenze e di quelle voci agli allora indagati Giuseppe Cristofaro, Aniello Bidognetti (figlio del capo clan Francesco Bidognetti ) e Tammaro e, conseguenzialmente, sulla sussistenza di gravi elementi indiziari anche a carico di Cimmino, all’epoca capo dell’omonimo clan cui apparteneva Tammaro (esecutore del delitto) e stretto alleato dei Bidognetti.
Sempre come riferito dai collaboratori di giustizia, risultava dagli atti processuali: che la Corte di Assise al fine di acquisire la certezza sulla attribuibilità delle voci agli imputati aveva affidato incarico peritale a Fichera; che proprio in conseguenza della citata perizia, che escludeva l’attribuibilità delle voci intercettate a Bidognetti e Tammaro, la Corte assolveva sia Bidognetti che Tammaro mentre condannava, invece, Giuseppe Cristofaro, gregario del clan bidognettiano, e Cimmino, nei cui confronti gli elementi indiziari non si fondavano, direttamente, sulle intercettazioni.
Risultava poi che nel successivo processo d’appello anche Luigi Cimmino veniva assolto dall’accusa di essere stato il mandante. Ciò quale conseguenza logica della assoluzione, nel processo di primo grado, di Vincenzo Tammaro che, secondo la tesi accusatoria, era stato, proprio su incarico di Cimmino, esecutore materiale del reato. Esito finale del processo e conseguenza diretta ed indiretta della perizia era che tre imputati su quattro venivano assolti e che Iunico imputato condannato per il duplice omicidio era Giuseppe Cristofaro, come si è detto componente di secondo piano del sodalizio casalese – fazione bidognettiana. Veniva pertanto nominato un qualificato collegio di consulenti che non solo, e senza dubbio alcuno, evidenziava che i due soggetti assolti in primo grado (Bidognetti e Tammaro) erano sicuramente fra gli interlocutori di quelle conversazioni intercettate ma che, soprattutto, sottolineava come la perizia di Fichera fosse affetta da gravissime incongruenze nella lettura dei dati strumentali.
I collaboratori di giustizia Anna Carrino, Franco Albino, Bruno Danese, oltre a consentire di ricostruire la complessa vicenda processuale, indicavano chiaramente nell’avvocato Santonastaso il soggetto che si era occupato di predisporre, ed organizzare il tutto procurando il perito compiacente e curando, direttamente o per interposta persona, i contatti e Ie relazioni con tutti i soggetti interessati, a cominciare da Francesco e Michele Bidognetti, nonché Luigi Cimmino, preoccupati rispettivamente per le sorti di Aniello Bidognetti e Vincenzo Tammaro.
Le dichiarazioni hanno trovato un formidabile riscontro nelle intercettazioni ambientali compiute, in carcere e ricostruite dalla polizia giudiziaria. Da ultimo poi una ulteriore dichiarazione, di Raffaele Piccolo, collaboratore di giustizia del clan Schiavone, ha consentito di rafforzare ulteriormente il grave quadro indiziario. Invero sul ruolo dell’avvocato Santonastaso quale latore di direttive provenienti dal boss detenuto e sulla sua disponibilità a strumentalizzare la funzione difensiva per gli affari illeciti del clan, sono state acquisite anche le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, fra cui Domenico Bidognetti, Oreste Spagnuolo, Emilio Di Caterino, Massimo Iovine, Luigi Guida e Augusto La Torre che hanno citato diversi episodi in cui il difensore si è reso protagonista di attività volte a favorire il clan e ben lontane dai limiti del mandato difensivo. Proprio La Torre ha consentito di ricostruire la vicenda del cosiddetto falso alibi Mandara. Si tratta delle dichiarazioni rese durante un processo dal nota imprenditore caseario a favore di Augusto La Torre, nella piena consapevolezza di dire il falso, sulla base delle indicazioni concordate fra La Torre, ben prima della sua collaborazione, e Santonastaso; in particolare Mandara riferiva di essere stato a casa del boss a Mondragone in occasione del giorno di SantAugusto al fine di consentirgli di utilizzare I’alibi nel processo in cui era accusato del duplice omicidio Roselli-Riccardi, così consentendo fra l’altro alla difesa di screditare la figura di uno dei pili lucidi ed importanti collaboratori di giustizia provenienti dal clan dei casalesi e cioè Dario De Simone, che aveva chiamato in correità La Torre. Anche in questo caso altre dichiarazioni collaborative convergono nel delineare il ruolo di Santonastaso di organizzatore ed esecutore del piano criminoso, quali quelle di Salvatore Orabona e Mario Sperlongano.