Riforma statuto dei pm: saggio del professor Riccio a Palazzo Melzi

di Redazione

da sin. Magi e RiccioSANTA MARIA CV. Nella cornice di Palazzo Melzi, a Santa Maria Capua Vetere, si è tenuta la presentazione del libro del professor Giuseppe Riccio, eccellente studioso di procedura penale.

Il testo, intitolato “Sulla riforma dello statuto del pubblico ministero”, è una brillante analisi dell’attuale posizione processuale della pubblica accusa e del rilevo che essa ha assunto negli ultimi anni, in quanto oggetto di continui tentativi riformatori da parte del legislatore. Moderati dall’avvocato Quarto, molti gli illustri ospiti che hanno discusso del lavoro dell’ex componente del Csm: Lorenzo Chieffi (preside della Facoltà di Giurisprudenza), Carlo Venditti (direttore della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali), Andrea Della Selva (presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere), Alessandro Diana (presidente dell’Ordine degli avvocati sammaritani), Corrado Lembo (procuratore della Repubblica), membri della magistratura quali i giudici Cantone e Magi, dell’avvocatura, avvocati Irace e Stellato, della politica, con l’onorevole Boato, nonché del mondo accademico con il professor Menna.

Protagonista del dibattito la Carta costituzionale italiana ed il suo primato nella gerarchia delle fonti. La Carta fondamentale deve porsi come base e punto di partenza per ogni tentativo di riforma della legislazione ordinaria e dei punti cardine dell’ordinamento giuridico, al fine di evitare la decostituzionalizzazione del sistema. Occorre tener presente inoltre, come le disposizioni legislative altro non siano che una cristallizzazione della realtà fenomenica. In altri termini, il diritto è frutto dell’esperienza nel suo sistemare e codificare la realtà umana, rendendone possibile la utilizzazione futura e suscettibile di adeguarsi all’evolversi della coscienza sociale.

Al centro della discussione la necessità di guardare alla realtà giudiziaria con gli occhi del comune cittadino. La collettività non può più tollerare un sistema scarsamente efficiente o talvolta inefficiente. I tentativi riformatori dovrebbero essere sempre accompagnati da buon senso, abbandonando le bandiere ideologiche. L’incertezza della giustizia civile offre, soprattutto nelle nostre terre, la possibilità alle associazioni mafiose di offrire alternative alla giustizia statale; l’equilibrio economico è provato dalla lentezza delle cause in materia di diritto del lavoro e dalla stessa incertezza delle procedure fallimentari.

 Più delicato il discorso relativo alla ragionevole durata dei processi in materia penale, i quali spesso si trovano ad avere come protagonisti soggetti in stato detentivo ed in attesa di giudizio. Il problema non interessa solo la giurisdizione di primo grado, ma le stesse Corti d’Appello, le quali danno molto spesso risposte tardive alla richiesta di giustizia dei cittadini. La magistratura deve rimanere un ordine autonomo ed indipendente, ed ancor di più la magistratura inquirente. Occorrerebbe, inoltre, liberare maggiori risorse umane per la giurisdizione con un recupero complessivo dell’efficienza, e ciò appare un brillante suggerimento nell’incertezza riformatrice. I relatori hanno anche posto l’accento sulla necessità di porre, nel collegio del Giudice, delle leggi un maggior numero di soggetti con competenze processual-penalistiche al fine di evitare pronunce talvolta poco vicine al comune sentire.

Numerosi sono i paradossi che nella prassi si verificano; è assurdo che, talvolta, due uffici diano un’interpretazione diversa della stessa norma. In conclusione, il vero “petitum” è la necessita di dare una risposta alla collettività ed alla sua domanda di giustizia, puntando all’efficienza e non sbandierando la volontà di velocizzare le procedure introducendo disposizioni che renderebbero ancor più farraginoso il sistema. La polizia giudiziaria è giusto mantenga la sua funzionalità rispetto al pubblico ministero, non sganciandola da quest’ultimo per evitare risvolti poco felici. Lo stesso articolo 347 del Codice di procedura penale, in materia di “attività a iniziativa della polizia giudiziaria”, potrebbe generare pericolosi sganciamenti tra i due apparati.

Occorre ragionare sull’opportunità di una riforma, sulla sua utilità e sul suo obiettivo e non partire da un intento riformatore punitivo nei confronti della pubblica accusa. La separazione delle carriere potrebbe avere esiti positivi, ma un pubblico ministero con un proprio Consiglio superiore, con propri rappresentati non genererebbe un superpoliziotto più forte e non controllato? O, ancora, un Consiglio superiore del pubblico ministero con a capo il Guardasigilli non farebbe del pubblico ministero un braccio armato dell’Esecutivo?

Insomma, non è con gli intenti punitivi che si fanno le riforme, non nel clima di un forte scontro politico. Ogni riforma deve essere fatta nell’interesse dei cittadini ed in materia di giustizia occorrerebbe rivoluzionare un processo che in diversi settori fa un po’ acqua da tutte le parti, con tempi lunghissimi, con rischio di prescrizioni, senza risposte per i cittadini.

di Maddalena Letizia

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