CARACAS. Il capo dello Stato uscente del Venezuela, Hugo Chavez, è stato rieletto alla presidenza con il 54,4%, pari a 7.444.082 milioni di voti, mentre lo sfidante Henrique Capriles ha avuto il 44,4% delle preferenze, equivalenti a 6.151.544 milioni di voti.
Il più ammirato e detestato dei leader dell’America Latina ha ottenuto la vittoria nella più rischiosa delle scommesse della sua lunga carriera politica: l’ufficiale dei paracadutisti che nel 1992 si arrese dopo aver partecipato in un golpe fallito, è stato rieletto ieri dai venezuelani per un quarto mandato presidenziale consecutivo, che lo conferma al palazzo di Miraflores, sede del capo di Stato a Caracas, fino al 2019.
La vittoria dell’ex militare diventato paladino bolivariano è stata chiara e senza possibili obiezioni: con quasi 10 punti di distanza dal suo rivale dell’opposizione, Henrique Capriles, Chavez può considerare del tutto confermato l’appoggio del Paese al suo modello di società, che punta a sconfiggere definitivamente quelli che definisce i due nemici mortali del “socialismo del secolo XXI”: la “borghesia oligarchica” all’interno, e il suo referente esterno, cioè “l’imperialismo” degli Stati Uniti.
Per Chavez, provato dalla stanchezza e indebolito dalla sua lotta contro il cancro – sulla sua malattia le informazioni sono sempre state parziali e opache – la vittoria contro un candidato di quasi vent’anni più giovane e che per prima volta in un decennio era riuscito a riunire intorno alla sua piattaforma una alleanza di partiti dell’opposizione costituisce senza alcun dubbio un traguardo importante. Malgrado il suo stato fisico gli abbia impedito di condurre anche questa volta una campagna tanto intensa quanto le precedenti, l’irrefrenabile candidato-presidente ha sfoggiato ancora una volta la sua capacità oratoria – un po’ anatema ideologico, un po’ tono familiare, un po’ enfasi epico e messianico – sulle tribune elettorali, chiudendo con una performance impareggiabile a Caracas sotto una pioggia battente, che ha subito interpretato come una benedizione di Dio.
Capriles, il candidato “majunche” (mediocre) – come lo ha sempre chiamato durante l’intera campagna – ha dato in fin dei conti meno filo da torcere a Chavez di quanto non avessero previsto molti analisti politici. Certo il candidato oppositore era partito in salita, con 20 punti di differenza dal candidato-presidente, ma la rimonta non gli è bastata per concludere la corsa segnando una distanza che potesse essere letta come un’incrinatura seria al successo del leader bolivariano.
Il futuro di Capriles resta comunque tutto da vedere, mentre invece Chavez, passata l’euforia della vittoria, dovrà fare seriamente i conti, per fare quadrare l’annunciato “consolidamento del socialismo” nel suo quarto mandato consecutivo alla presidenza con una serie di problemi che preoccupano l’opinione pubblica venezuelana, e un panorama internazionale che presenta nuove sfide da superare se vuole adempiere la sua vocazione di leadership regionale e perfino mondiale. I due principali problemi del futuro governo venezuelano sono l’inflazione, fra le più alte nel mondo, e l’insicurezza: lo stesso Chavez ha ammesso che la serie di “piani nazionali”che ha lanciato negli ultimi anni per debellare la criminalità, soprattutto la piccola criminalità urbana, non hanno avuto l’effetto previsto. Dovrà trovare un’altra formula.
Sullo scenario internazionale, la cosiddetta primavera araba ha spazzato via un governo come quello di Ghedafi, con il quale manteneva rapporti fraterni, e minaccia ora quello di Bashar el Assad – dipinto dai media governativi di Caracas come la vittima di un complotto internazionale – mentre la pressione internazionale su Teheran ha avvicinato ancora di più il Venezuela all’Iran degli Ayatollah.
A livello regionale, Chavez è riuscito ad approfittare dell’impeachment del presidente paraguayano Fernando Lugo – che ha denunciato come un “golpe parlamentare” – per fare entrare il suo paese nel Mercosur, e l’arrivo di Juan Manuel Santos alla presidenza colombiana ha portato a un riavvicinamento con Bogotà, dopo le distanze accumulate durante l’epoca di Alvaro Uribe.
Rafforzato nella sua legittimità, il presidente venezuelano cercherà dunque di rafforzare la sua alleanza con governi come quello del boliviano Evo Morales, l’ecuadoregno Rafael Correa, l’argentina Cristina Fernandez de Kirchner e il nicaraguense Daniel Ortega, promovendo le strutture di integrazione regionale che ha ideato per competere con Washington, come l’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasud) e l’Alleanza Bolivariana (Alba).