Venezia, Leone d’Oro alla Svezia. Alba Rohrwacher miglior attrice

di Gaetano Bencivenga

 Si è conclusa, senza troppi clamori, la 71esima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e la giuria presieduta dal compositore francese Alexandre Desplat, coerentemente con la denominazione voluta per la kermesse lagunare, …

… che alla parola festival sostituisce quelle maggiormente pompose di mostra d’arte, ha emesso un verdetto più intellettuale che popolare.

L’ambito Leone d’Oro, ovvero il riconoscimento al miglior film, è andato allo svedese “A pigeon sat on a branch reflecting on existence” (letteralmente “un piccione appollaiato su un ramo che riflette sull’esistenza”) di Roy Andersson, un puro esercizio di stile, umoristico ma manierato, con uso profuso di camera fissa, insomma un’opera poco commerciabile e per nulla accattivante.

Eppure c’era il “Birdman” del messicano Inarritu, che, applaudito da critica e pubblico, poteva coniugare alla perfezione gusto “basso e alto” e piacere a una vasta platea di spettatori, valorizzando in maniera più efficace un riconoscimento importante quale il Leone d’Oro, spesso relegato alla visione in piccole sale frequentate da sparuti gruppi di addetti ai lavori. Sarebbe andata meglio se, a questo punto, le ”Notti bianche del postino” del russo Andrej Konchalovskj, pellicola lenta ma interessante, invece del Leone d’Argento alla regia avesse vinto il trofeo principale ma nulla di tutto ciò.

Per i nostri colori, che, proprio quest’anno, hanno mandato in campo una selezione di tutto rispetto grazie alle osannate opere di Martone, Munzi e Costanzo, hanno, in realtà, colto un risultato inferiore alle aspettative, se a vedersi chiamata sul palco per ritirare la Coppa Volpi alla migliore attrice è stata la sola Alba Rohrwacher, madre folle e vegana in “Hungry Hearts” diretto dal compagno Saverio Costanzo.

Per il medesimo lungometraggio ha primeggiato, tra gli attori protagonisti, il longilineo e capelluto americano Adam Driver, marito sulla scena della Rohrwacher e assente alla premiazione per impegni in vari set sicuramente altisonanti e di cui sentiremo parlare.

Peccato, quindi, che ancora una volta Cannes e, persino, Berlino, ci superino adottando scelte di maggiore presa sul mercato, perché siamo sempre più convinti che un film debba parlare tanto alla mente quanto al cuore e proporsi come un spettacolo avvincente che tenga ben aperti gli occhi invece di farli (soc)chiudere nel poco augurante oblio dell’inevitabile sonnolenza da noia incombente.

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