“Magic in the moonlight”: l’amore truccato di Woody Allen

di Emma Zampella

 La critica non approva e storce il naso alla nuova commedia romantica di Woody Allen, considerata opera minore che classificabile in quel filone cinematografico.

“È l’ulteriore commedia che tratta dell’amore”, ha detto qualcuno riassumendo la storia d’amore tra il carismatico Colin Firth e la deliziosa Emma Stone. Convince anche l’ambientazione di “Magic in the moonlight”: una lussuosa e caratteristica Costa Azzurra anni ’20. Ciò che davvero non attrae la curiosità sono i personaggi secondari. Scritti in maniera distratta ed impersonale, quasi, sembra che gli stessi possano presto scomparire dalla scena da un momento all’altro. Che sia una mossa strategica del regista per lasciare in primo piano la storia d’amore tra fra il prestigiatore Stanley e la sedicente medium Sophie?

Si tratta solo di un’imprudenza di un professionista che ha fatto del rapporto a due, la chiara firma della sua arte? Tuttavia, il giudizio cambia se proviamo a considerare il film come qualcos’altro: un’opera che finge di ripercorrere i cliché del genere al solo scopo di andare dritto al cuore delle cose, ovvero la visione che ne è alla base.

Una poetica che Allen ha espresso in ogni suo titolo, ma sublimandola in una macchina autonoma, distribuendola in maniera calibrata su figure e situazioni divertenti/amare; mentre qui acquista un carattere di urgenza che la impone al di sopra della forma. Richiesto di smascherare la graziosa sensitiva Sophie che, avendo fatto breccia nel cuore di un ricchissimo erede, è in sospetto di essere una volgare arrampicatrice, Stanley cade nella rete e, quando infine scopre l’inganno, è troppo tardi.

Mai Allen si è calato in modo più totale dentro un personaggio: facendo di Stanley un emblematico portavoce e di Sophie il suo simbolico contraltare di sogno e desiderio, ha parzialmente tradito l’artista che è in sé, ma molto ha rivelato dell’uomo che vi si cela dietro.

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