La 65esima edizione della Berlinale, che si è conclusa nella capitale tedesca con il solito successo di pubblico, ha rispettato l’innata vocazione all’impegno civile in piena conformità con quanto dichiarato dal direttore Kosslick in apertura di rassegna.
“Il nostro è un festival politico nel senso che siamo consapevoli di ciò che succede nel mondo”, queste le parole dette dallo stesso Kosslick, che la giuria internazionale, presieduta dal cineasta americano Darren Aronofski, ha immediatamente fatto proprie donando l’Orso d’Oro per il miglior film allo struggente docufilm “Taxi” dell’iraniano Jafar Panahi.
Di un vero regalo si tratta, e non perché non sia ampiamente meritato, poiché, grazie a questo riconoscimento, l’opera del maestro troverà più facilmente una distribuzione planetaria e la sua voce di dissenziente potrà levarsi al di là degli stretti confini di un paese che lo tiene, quasi, segregato. Panahi, infatti, è stato condannato in patria a sei anni di reclusione per (presunta) insubordinazione e solo per effetto dei tanti appelli pervenuti dal mondo della cultura mondiale non sta scontando la pena in carcere, ma è obbligato a non rilasciare interviste, a non uscire dall’Iran e, soprattutto, a non girare film. Una proibizione, quest’ultima, che il regista riesce a violare in qualche modo, ricorrendo alle modalità più singolari per realizzare, con pochissimi mezzi, piccoli lungometraggi dal cuore enorme.
Come il suo “Taxi”, per esempio, girato mettendo una modesta telecamera nell’autovettura che è costretto a condurre per sopravvivere. Ne è nata, così, una perla rara capace di raccontare le contraddizioni, i soprusi, i problemi dell’Iran contemporaneo narrati da gente comune, o anche familiari del cineasta, trasportati da un capo all’altro della megalopoli asiatica.
Ovviamente Panahi non era in sala per ritirare il prestigioso trofeo, così come accadde qualche anno fa quando la sua sedia di giurato rimase vuota, ma sul palco è salita l’emozionatissima nipote Hana Saeidi, tra l’altro attrice nel lungometraggio, che, avvolta da una tunica rosa, ha ringraziato tutti, organizzatori della kermesse compresi, per continuare a dare risalto alla figura di un artista del calibro di Panahi, sfidando le ire del regime chiaramente, altrimenti ingiustamente relegato all’oblio.
Il Gran Premio della Giuria è andato, doverosamente, al cileno “El Club”, diretto dal talentuoso Pablo Larraìn, per molti il miglior titolo della rassegna, coraggioso nel trattare, senza mezzi termini, la scottante questione della pedofilia nella Chiesa attraverso la storia di quattro ex preti e una ex suora, macchiatisi di tali reati e per tale motivo relegati in una sorta di esilio in una casa sperduta in riva al mare.
Contestati, invece, gli Orsi d’Argento alla regia, ex aequo, per il romeno “Aferim!” di Radu Jude, sorta di western psicologico ambientato nella petrosa cornice dell’est europeo, e il polacco “Body” di Malgorzata Szumowska, ostica trama di difficoltose relazioni familiari.
Miglior attori i britannici Tom Courtenay e Charlotte Rampling, marito e moglie alle prese con l’organizzazione di una festa per i 50 anni del loro matrimonio e con l’affiorare di un terribile segreto nel passato dell’uomo nel drammatico “45 Years” di Andrew High.
Poca gloria all’interno del palmares per i nostri colori, che con “Vergine giurata” dell’esordiente Laura Bispuri non sono andati oltre una beneaugurante standing ovation in occasione del passaggio dell’opera in concorso.