Bergamo – Yara non sarebbe morta nel campo di Chignolo d’Isola, dove venne trovato il suo cadavere. E la prova del Dna rinvenuto sugli abiti della ragazza non sarebbe un elemento inconfutabile della colpevolezza di Massimo Bossetti. Sono i due temi esposti dal difensore di Bossetti, l’avvocato Claudio Salvagni, che ha incontrato la stampa per illustrare il ricorso al Tribunale del Riesame di Brescia in cui si chiede la scarcerazione del suo assistito.
Inoltre nel computer di Bossetti, secondo i consulenti della difesa, vi è una sola ricerca relativa alla parola “13enne” e molte di queste ricerche non sono state datate nella consulenza disposta dalla Procura. Si ipotizza poi che altre ricerche, apparentemente a sfondo sessuale, relative a 13enni, possano essersi generate in modo “automatico ma non necessariamente manuale”.
Le lesioni che presentava sul corpo Yara Gambirasio, secondo il medico legale che fa parte del collegio difensivo del muratore, potrebbero essere state inferte da un “mancino e con un’arma importante”. Un’arma che potrebbe assomigliare ad un coltello usato nel kali filippino, una particolare tecnica di combattimento.
L’esperta ha spiegato che i colpi d’arma da taglio inferti alla ragazza sono stati vibrati con “un’arma veramente importante che ben si concilia con il tipo di lesioni” riscontrate sul corpo della ragazza, in modo particolare una alla gola. Il fatto, inoltre, che la maglietta della ragazza, nonostante la ferita alla gola fosse intonsa, e così la posizione in cui fu trovato il cadavere, fa ipotizzare che Yara “sia stata spogliata e rivestita”.