Chi è interessato alla storia dell’arte o ai beni culturali sa bene quanto siano impraticabili, per la folla, i monumenti o i musei più famosi, soprattutto in giorni di festa e vacanza. I turisti, spesso, devono affrontare file abnormi perdendo ore utili della loro villeggiatura. Alla luce di questo, c’è chi, approfittando delle opportunità offerte dal web, ha pensato bene di creare un business senza precedenti. Si tratta di società che acquistano stock di biglietti d’ingresso per mostre e musei e li rivendono, con prezzo più alto o raddoppiato, su internet.
Il vantaggio sarebbe uno solo: “Skip the Line”, salta la fila. Un esempio di società simili è la tedesca “GetYourGuide” che vende “Tickets for top attractions around the world”, biglietti per grandi attrazioni in tutto il mondo. A Firenze promette – per 28 euro – “Skip the Line Uffizi Gallery Ticket”, raddoppiando il costo di un ingresso alla galleria, che in realtà costa appena 12,50 euro.
Questo tipo di affari ha ovviamente alzato un polverone di polemiche, poiché si tratta di attività che ledono la “statalità” dell’offerta turistica. La dottoressa Sandrina Bandera, direttrice del Polo museale della Lombardia per il ministero dei Beni culturali, e l’architetto Alberto Artioli, oggi segretario regionale del ministero dei Beni culturali per la Lombardia, sottolineano che le istituzioni e la polizia postale stanno facendo tutto il possibile per cercare di contrastare un fenomeno che getta cattiva luce sulla gestione del patrimonio artistico del nostro Paese.
Secondo lo storico dell’Arte Tommaso Montanari, professore all’Università di Napoli, fenomeni del genere rappresentano la privatizzazione del patrimonio artistico. “Se lo Stato concepisce monumenti e opere d’arte solo come un mezzo di business – ha commentato – non deve scandalizzarci se poi accadano queste cose. Perché il vero scandalo è la cornice che a partire dagli anni ‘90 ha reso normali fenomeni come questo bagarinaggio digitale”.
L’avvocato Valeria Graziussi afferma che l’offerta “Skip the line” potrebbe qualificarsi anche come “una pratica commerciale scorretta, come definita dall’articolo 20 e seguenti del Codice del consumo, dal momento che quello che viene venduto è un servizio che non esiste” e che, secondo i clienti, non rilascia neanche fatture.