Una cinquantina di persone ferme ad aspettare all’ingresso dell’Archivio storico del Banco di Napoli. C’è chi chiacchiera e chi per smorzare l’attesa legge la locandina affissa all’ingresso.
Non si tratta dei nuovi Indiana Jones partenopei alla ricerca di antichi documenti né abitanti sbucati dal passato venuti lì a reclamare qualcosa, ma sono gli spettatori di una particolarissima rappresentazione itinerante (ad ingresso gratuito con prenotazione in scena dal 16 al 18 dicembre alle ore 20:00) che di lì a breve li catapulterà in un viaggio unico indietro nel tempo.
Si tratta del progetto: “Commedia in tempo di peste” una produzione inedita, frutto del lavoro di ricerca su preziose fonti archivistiche custodite nell’Archivio, condotta dalla cooperativa En Kai Pan con l’Associazione Teatrale Aisthesis e il suo regista Luca Gatta (questi ultimi addetti anche alla formazione degli attori attraverso il laboratorio internazionale di composizione scenica “Licos”). La volontà del progetto è una: quella di far rivivere le storie nascoste e poco conosciute presenti nelle miriadi di volumi conservati nell’Archivio storico del Banco di Napoli.
Gli spettatori sono invitati a partecipare in prima linea alla recita.
Si incomincia dal cortile, i responsabili del progetto parlano dell’inestimabile valore del Banco che conserva volumi e grafie risalenti addirittura ai primordi del ‘500. “È un archivio che sussurra e parla. Con la recita vogliamo raccontare proprio le storie della città chiuse nei documenti” affermano.
Dopo un excursus sul teatro seicentesco con riferimenti ai grandi Goldoni e Fiorillo, lo spettacolo parte. Nella prima scena, in cortile arriva un Pulcinella scapestrato che con un vivace parlar napoletano racconta di peste e contagio, affiancato subito dopo dalla classica maschera del dottore che si dà a spiegazioni più scientifiche e forbite. Il contrasto parlato popolare e parlato colto è il primo motivo di divertimento per gli spettatori che, richiamati dal dottore, si avviano verso i piani superiori.
All’interno dell’edificio tra volumi antichissimi e mura che sembrano essere silenziose testimoni di storie e tempi passati, in un’atmosfera suggestiva, il celebre Capitan Matamoros, protagonista della commedia dell’arte italiana seicentesca, è rimasto imprigionato in città durante il contagio e, pur di recitare, intraprende un viaggio attraverso i quartieri appestati (rappresentati dalle varie stanze) insieme al suo baldanzoso e fedele servo Arlecchino.
I due incontreranno diversi personaggi: dai famigerati “cerretani” che vendono medicamenti nelle piazze a donne murate vive in casa dove è stata accertata la presenza della peste, da cinici pittori in cerca di fortuna ai temibili “seggettari” che trasportano i malati negli ospedali fino a confrontarsi con la stessa Morte, che regna incontrastata in città.
Esilarante la scena dell’impiegato del Banco: un ometto barbuto vestito di rosso che indossa spessi occhialoni e che interagisce direttamente col pubblico o, ancora, la piccante scena della nobile e della servetta Sarracina che si sollazzano con il Capitano e Arlecchino. Non mancano scene di grande tensione drammatica: ad esempio, quella del canto della nobile e l’arrivo della morte per tutti i personaggi.
Il finale sorprendente e originale lascerà tutti a bocca aperta.
Sono personaggi reali o sono loro stessi attori? È questa la domanda che si faranno gli spettatori che, per l’ultimo appuntamento della rassegna Scene d’archivio, saranno coinvolti in un vero e proprio happening.
Viene da chiedersi: perché la pesta? A rispondere sono gli stessi responsabili del progetto, ma anche e soprattutto l’intera rappresentazione: la peste è uno dei temi più trattati dalla letteratura europea, quella che ha colpito Napoli nel 1656 è stata una delle più terribili. La città, compressa nel ristretto perimetro greco-romano e sviluppatasi in altezza, sovrappopolata e mal censita, fu letteralmente devastata dall’epidemia. La sua storia è stata ricostruita da Eduardo Nappi attraverso una minuziosa raccolta di documenti custoditi nell’Archivio Storico del Banco di Napoli, dai quali emerge il dramma collettivo della città e la sua lotta impari contro il contagio, ma si scoprono anche storie piccole e raramente raccontate. Storie talvolta brutali come quella di una ragazzina ospitata dalla Real Casa dell’Annunziata e quella dell’eroica “resistenza” dei sedici impiegati del Banco di Sant’Eligio in piazza Mercato, una delle zone più colpite dal contagio, che rimasero in servizio per tutto il periodo dell’epidemia e di cui alla fine ne sopravvisse uno solo.
Storie vere, appassionate, storie che devono essere raccontate e riscoperte.
Il progetto ha l’intento di ridare luce a un luogo che è l’archivio di documentazione bancaria più importante al mondo, come afferma Daniele Marrama presidente della fondazione “Banco di Napoli”, e che, purtroppo, molti napoletani o, in generale, campani non conoscono ancora.
Per quanto riguarda la vera e propria rappresentazione teatrale, il regista Luca Gatta si dilunga sul lavoro degli attori dietro le scene: “Durante il Licos, l’attore studia forme teatrali di differenti tradizioni per poi mescolarle insieme creando così una propria drammaturgia nella quale è però possibile riconoscervi le radici da cui è germogliata”.“L’obiettivo centrale del lavoro di Aisthesis è quello di creare un teatro di gruppo che abbia come fine la ricerca di nuove forme espressive e che si fondi sul dialogo transculturale favorendo perciò l’integrazione e l’interazione tra soggetti provenienti da culture ed esperienze differenti”conclude Gatta.
Gli attori, durante il laboratorio Licos, hanno seguito anche le lezioni di Francesca Della Monica, insegnante di tecnica e fisiognomica vocale. “Cantare, recitare una canzone o un testo, richiede all’interprete la necessità di ri-significare a proprio modo ogni intervallo, ogni durata, ogni pausa – afferma Della Monica – cantare significa prestare il corpo al pentagramma, svegliare il processo della memoria che legherà il nostro vissuto, il nostro immaginario e il nostro “essere” a quei segni scelti, così come, per converso, il flusso della memoria attivato dalla parola apre le porte sensoriali, istigando il corpo a farsi presente nella materia vocale”. Questa la filosofia che permea anche il lavoro di Gian Mario Conti, musicista che assieme a Francesca Della Monica ha costruito la drammaturgia musicale per tutti gli spettacoli inseriti nella rassegna “Scene d’Archivio”.