Standing ovation al Dolby Theatre di Los Angeles per i due premi più attesi dell’88esima edizione degli Oscar. Ennio Morricone e Leonardo Di Caprio hanno, infatti, meritato quest’onore tributatogli spontaneamente dal pubblico di colleghi, amici (e anche nemici), che, in tanti anni di nomination andate a vuoto, gli hanno finalmente conferito il trofeo e riconosciuto l’innegabile talento sul quale il pubblico non aveva mai avuto dubbi.
Il maestro romano, indiscussa icona delle sette note a livello planetario e già vincitore di un Academy Award alla carriera nel 2007, ha avuto, all’età di 87 anni suonati, la soddisfazione di veder premiato un suo lavoro di composizione al servizio di un lungometraggio western, “The Hateful Eight”, diretto dal genio del genere pulp Quentin Tarantino. Un cineasta che ha fortemente cercato e voluto tale collaborazione, nonostante le remore del compositore, e che Morricone, una volta ricevuto l’agognato trofeo dalle mani del mitico Quincy Jones, ha voluto ringraziare, pur se la dedica finale è stata rivolta all’inseparabile moglie e compagna di una vita, ispiratrice delle sue dolci, avvolgenti, indimenticabili melodie.
E al sesto tentativo (di cui uno nelle vesti di produttore) c’è riuscito anche Di Caprio, divo inimitabile della Settima Arte dell’ultimo ventennio, ad alzare al cielo la statuetta dorata, preziosa non tanto per il valore monetario quanto per la certezza di entrare nella leggenda dell’universo di celluloide dalla porta principale.
A 41 anni, l’ex Jack del “Titanic”, nonché stella delle più importanti pellicole del secolo trascorso e del nuovo appena cominciato, è sfuggito alla maledizione, che accomuna esimi nomi del passato, di far parte di quella schiera (per certi versi interminabile e innominabile in quanto scandalosa) dei grandi interpreti mai sfiorati da un Oscar.
Il suo alloro Di Caprio se l’è, quindi, proprio sudato e, pur potendo gridare al mondo intero di essere il miglior attore protagonista del 2016, grazie all’immedesimazione fisica e intimista, al contempo, nei panni (si fa per dire) del cacciatore di pelli, realmente vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, Hugh Glass nell’epico “Revenant-Redivivo”, ha preferito lanciare dal palco più celebre e celebrato del pianeta un messaggio prettamente ecologico (oltre ad aver doverosamente omaggiato il suo pigmalione Martin Scorsese).
Onore al merito, ancora una volta, e onore al merito al cineasta che lo ha diretto, il messicano Alejandro G. Inarritu, che è stato il primo in assoluto a ricevere il premio di miglior regista per il secondo anno consecutivo (c’era riuscito già nella passata edizione. con “Birdman”).
In tutto “Revenenat-Redivivo”, che partiva dal bottino record di 11 candidature, ha portato a casa anche la statuetta per la bellissima fotografia, una delle artefici principali del suo successo. Il maggior numero di premi lo ha guadagnato l’avventuroso e avveniristico “Mad Max-Fury Road” di George Miller, vincitore di sei Academy cosiddetti “tecnici” (scenografia, montaggio, costumi, trucco e acconciature, sonoro e montaggio sonoro), mentre quelli per il miglior film e la sceneggiatura non originale sono, meritatamente, finiti nelle mani de “Il caso Spotlight” di Tom McCarthy, coraggioso lungometraggio basato sulla storia vera di un gruppo di giornalisti del Boston Globe, intenzionati a far cadere il velo dell’omertà su innumerevoli casi di violenze su minori da parte di preti appartenenti alla diocesi della capitale del Massachusets.
I produttori della pellicola non hanno perso tempo per lanciare a Papa Francesco un accorato appello affinché la lotta per stanare situazioni simili continui senza sosta nella Chiesa Cattolica. Prima nomination e indiscusso trionfo per l’attrice protagonista, la commovente Brie Larson, madre disposta a tutto pur di salvare il proprio figlio dalle minacce del mondo esterno nel claustrofobico “Room” di Lenny Abrahamson, e non protagonista, la delicata Alicia Vikander, moglie, amante e poi mentore della trasformazione sessuale del marito, il pittore Einar Wegener/Lili Ebe nel raffinato “The Danish Girl” di Tom Hooper.
Il grande deluso della “Notte delle Stelle” è stato, senza dubbio, il nerboruto Sylvester Stallone, quasi certo di vincere il trofeo di non protagonista e, invece, superato giustamente sul filo di lana dalla gloria del teatro britannico Mark Rylance, intrigante spia russa nel fantapolitico “Il ponte delle spie” di Steven Spielberg. Rispettate le previsioni per quanto riguarda il resto dei premi: l’ungherese “Son of Saul” dell’esordiente Laszlo Nemes miglior film straniero, il disneyano “Inside out” di Pete Docter miglior titolo d’animazione, il biografico “Amy” di Asif Kapodia miglior documentario, il fantascientifico “Ex Machina” di Alex Garland migliori effetti speciali, il controverso “La grande scommessa” di Adam Mc Carthy miglior sceneggiatura, e il nuovo capitolo della saga di 007 “Spectre” diretto da Sam Mendes migliore canzone.
Da segnalare, infine, la conduzione, dopo nove anni di assenza, ironica, comica e spigliata dell’afroamericano Chris Rock, che non si è lasciato sfuggire l’occasione per fare del sarcasmo diretto e brutale (a volte) sull’esclusione dei colleghi di colore da tutte le candidature dell’edizione di quest’anno.