Secondo Marcello Maneri, professore di Sociologia del razzismo e della discriminazione e Sociologia e analisi del discorso dei mezzi di informazione all’Università di Milano Bicocca, i mezzi di comunicazione, soprattutto negli ultimi anni, stanno utilizzando “tecniche sottili” che vanno ad incrementare odio e razzismo nei confronti di determinati gruppi di persone.
“La comunicazione di massa prevalente – dichiara – è attenta alle costruzioni delle frasi. Si nutre di icone bersaglio e alla fabbricazione di stereotipi e dei loro contrari: il rom che ruba è una notizia, il rom che non ruba pure lo è”.
Questo tipo di linguaggio si discosta da quello, principalmente web, dello “hate speech” (categoria elaborata dalla giurisprudenza americana per indicare discorsi che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo) perché è “un discorso che si presenta in modo tutto sommato trasparente, perché chiunque lo può riconoscere e approntare di conseguenza delle difese; chi lo diffonde risulterà manifestamente razzista o xenofobo”.
Quello a cui si riferisce Maneri è un “sordo lavoro di lima degli attori sociali che hanno accesso alla sfera pubblica e che si fanno portatori degli interessi di esigue minoranze attive definite di volta in volta come “opinione pubblica”. Questo lavoro genera strutture, forse ancor più di un discorso d’odio”.
Sul caso lavora da tempo l’associazione “Carta di Roma” che ha come obiettivo l’attuazione dell’omonimo protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione. “I casi passibili di un esposto all’Ordine dei giornalisti sono così numerosi che non sarebbe producente battersi per la sanzione di ognuno”, racconta Anna Meli, giornalista e coordinatrice dell’associazione.
La Carta di Roma, ad ogni modo, preferisce contattare l’autore di un articolo tendenzioso o palesemente falso e parlarne civilmente con lui. Inoltre, Carta di Roma ha lanciato con la European federation of journalists e Articolo 21 una campagna contro i discorsi d’odio chiamata #nohatespeech.
“Dobbiamo porre un freno – chiarisce Meli – in particolare nell’ambito dei mezzi di comunicazione. Perché ci si deve rendere conto che i discorsi d’odio non sono semplici opinioni bensì brutali falsificazioni della realtà contro cui è preciso dovere professionale lavorare per chiarire ai lettori la loro falsità intrinseca”.