“A che cosa servono gli uomini” è una brillante commedia che, per la regia di Rebecca Miller, dimostra come i ruoli siano solo delle etichette comuni e convenzionali con le quali costruiamo le relazioni e i rapporti del nostro tempo.
Sul grande schermo dal 29 giugno, la pellicola si muove partendo da una veloce New York a fare da sfondo, quelle delle grandi ambizioni, ma soprattutto fatta di grandi ego, personali e utopici, a tratti esagerati. Un po’ come quello di Maggie Hardin, insegnate accademica, o, come più ama definirsi, “ponte tra arte e commercio”, una donna sulla trentina con la grandissima consapevolezza di ciò che è l’essere donna.
La Hardin, magistralmente interpretata da una Greta Gerwig senza trucco né fronzoli, è un personaggio estraneo alle consuete dinamiche sentimentali, eppure teso al conseguimento di obiettivi che possano risultare “normali”. Pur non amando, in quanto affetta da “disamore”, la giovane donna vuole realizzare il suo obiettivo: essere madre. Pertanto chiede aiuto ad un seme straniero, di un uomo sconosciuto, di cui sa poco o nulla, perché l’unica cosa che le interessa per davvero è realizzare il suo obiettivo. Anche se un uomo al suo fianco.
Quando Maggie si persuade a diventare madre single, contatta Guy (Travis Fimmel), un imprenditore con la fissa dei cetrioli sottaceto. Ex matematico adibito a donatore, ficca il suo patrimonio genetico in un barattolino che fa appena in tempo ad essere sfruttato. Ore dopo essere stata inseminata artificialmente, Maggie incontra John (Ethan Hawke). Un professore belloccio, perso a crogiolarsi in un compiaciuto lamento intellettualoide e nelle rovine di un matrimonio fallito.John ha sacrificato le proprie mire professionali per assecondare quelle della moglie Georgette (Julianne Moore). Un’accademica egomaniaca che viene presto lasciata per Maggie.
John è eletto a marito, padre dei figli che da sempre la Hardin ha cercato. Eppure, non la soddisfa. Non la soddisfano nemmeno i consigli di Tony (Bill Harder), amico fedele e coscienza riflessiva. Maggie, nella sua personale quanto schematica ricerca della felicità, capisce presto che i ruoli sono etichette effimere. Caselle forzate, nelle quali inserire un mare di luoghi comuni.