Negli ultimi giorni sui fili “scottanti” della rete social è scoppiata la polemica del caso “burkini”. Per chi non lo sapesse, si tratta di un tipo di costume da bagno femminile (molto simile ad una tuta subacquea) disegnato dalla stilista australiana di madre libanese, Aheda Zanetti, per le donne di religione musulmana.
Il costume copre tutto il corpo, ad eccezione del viso, delle mani e dei piedi, secondo i pretesi dettami dell’islamismo. La particolare parola deriva dall’unione dei termini burqa e bikini. L’utilizzo sempre più frequente, da parte di donne musulmane, di questo indumento ha innalzato come ci si aspettava, in un momento così critico dal punto di vista internazionale, un polverone senza precedenti.
I movimenti femministi, i religiosi di ogni ideologia, gli intellettuali e, anche e soprattutto, semplici curiosi hanno voluto dire la loro sul caso. Tutto ruota intorno a due domande etiche: “La scelta di coprirsi così anche per una semplice nuotata al mare è libera?” e “La libertà di una donna è davvero direttamente proporzionale ai lembi di pelle che scopre?”. Per la prima domanda, con una mentalità occidentalizzata e anche un po’ terrofobica, la risposta spontanea indirizzerebbe verso un energico “no”.
L’immagine collettiva che si ha delle donne musulmane è quella di persone segregate in casa da un marito o padre dittatoriale sempre pronto a puntare l’indice verso l’alto gridando sermoni moralistici. Tuttavia, si deve tener conto del fatto che le donne musulmane sono appunto religiose musulmane e che la maggior parte di loro, se non tutte, abbracciano interamente la visione islamica concerne il proprio abbigliamento.
Quindi è probabile che la loro “scelta” di coprirsi sia semplice “volontà di adesione” ai dettami della religione in cui credono fermamente.
Si potrebbe obiettare a ciò con la visione di un padre/marito che punirebbe sua figlia o sua moglie ribelle nei confronti dell’islam, ma il discorso, in tal caso, dovrebbe essere ampliato e sfocerebbe nella psicologia e nell’antropologia, materie troppo complesse da trattare in un breve e semplice articolo. D’altronde, figure di genitori o coniugi “padroni” sono presenti i in tutte le realtà, anche occidentali, e in numerose ideologie, non solo musulmane, ma anche cristiane, ebree, orientali e perfino totalmente atee e laiche.
Per semplicità di contenuti, quindi, si considera in questa analisi solo l’approccio di una donna musulmana che liberamente sceglie di indossare il burkini in onore della propria matrice religiosa.
Per quanto riguarda la seconda domanda, ossia se la libertà di una donna si misura attraverso le parti di corpo scoperte, anche qui le visioni possono essere molteplici. Nel secolo precedente le nostre ave hanno combattuto per potersi permettere di vestirsi come volevano scoprendo parti del proprio corpo. Nel 1906, la nuotatrice australiana Annette Kellerman si presentò a una gara negli Stati Uniti con un costume che scopriva le cosce. La giovane fu arrestata ed espulsa.
Ci sono volute sollevazioni e rivolte femministe per permettere alle donne di poter indossare abiti scollati, corti o aderenti. Un tempo lo “scoprirsi” faceva scalpore e la libertà si misurava nella trasgressione del “nudo”; oggi colpisce il “coprirsi”. Qualsiasi punto di vista si consideri, il problema è sempre stata l’imposizione alla donna, non solo nella moda, ma in qualsiasi campo: sessuale, culturale e lavorativo.
Il caso del “burkini” ha fatto così scalpore probabilmente non tanto per la questione religiosa in sé (a pensarci, anche alle suore è imposto un velo o agli uomini ebrei la kippah) ma perché ha messo in luce una questione di cui ancora oggi si discute: il ruolo della donna in una società dalle basi e origini maschiliste. Il fatto che ancora oggi, XXI secolo, ci si chieda se sia più o meno giusto che una donna si copra o si scopra è la prova lampante del fallimento di anni e anni di lotte egualitarie. Non è stata una scelta nascere donna, ma è una scelta vivere da donna libera.
Dunque, qualsiasi siano le motivazioni che spingono una donna a coprirsi o a scoprirsi, a indossare un burkini o un bikini, a passeggiare con un vestito lungo o con un attillato e corto, a scegliere professioni come l’infermiera e la maestra o al contrario come la camionista e la pilota, a perdere la verginità prima dei 18 anni o ad aspettare il matrimonio per farlo, a volere tanti figli o al contrario a non volerne neanche uno, è bene tacere, rispettare e smettere di giudicare.
È un invito questo rivolto alle donne più che agli uomini, perché si sa, purtroppo, che le prime nemiche della nostra libertà siamo noi stesse.