Aversa – Si intensifica l’azione del Comitato per il No che prova a chiarire perché sia necessario partecipare e dire “No” alle modifiche alla Costituzione proposte dal Governo Renzi con un quesito al quale, con una lettura superficiale e soprattutto disinformata, sembra d’obbligo dire “Sì”.
A dettagliare le ragioni del No è Luca de Rosa, assessore comunale nell’amministrazione Ferrara, ed esponente del Pci che prova a chiarire ogni cosa in una lunga nota diretta agli aversani.
Riceviamo e pubblichiamo:
“Le corpose revisioni costituzionali (circa un terzo degli articoli sono stati cambiati) oggetto del Referendum del 4 dicembre, sono state approvate, su impulso e proposta del Governo Renzi, a maggioranza semplice in seconda lettura dalle Camere, a norma dell’articolo 138 della Costituzione. Tale articolo rende obbligatorio il referendum su queste revisioni in quanto esse non sono state approvate con il voto dei due terzi dei componenti delle Camere, ma solo in seconda lettura e con la maggioranza semplice dei parlamentari.
Questo referendum non è quindi una gentile concessione del legislatore o del governo, né l’esito della raccolta di firme di promotori, ma semplicemente un obbligo posto dall’art. 138 della Costituzione stessa, laddove nelle Camere non si sia manifestata una larga condivisione con maggioranze qualificate.
Per la validità di questo referendum non è quindi previsto alcun quorum, come viceversa normato dall’articolo 75 della Costituzione per l’istituto del referendum abrogativo di una legge.In questo passaggio risiede la prima ed insanabile criticità di questo processo di revisione costituzionale: la sentenza della Corte Costituzionale 1/2014 (giudizio sulla legittimità della legge elettorale cosiddetta “Porcellum”) stabilisce che punti essenziali della legge elettorale con cui il Parlamento attuale è stato eletto sono incostituzionali, in quanto alterano in maniera irragionevole e sproporzionata il principio di rappresentanza a fondamento del voto “libero, uguale e segreto” previsto dall’art. 48. La stessa sentenza riconosce al contempo, in base al principio di continuità dello Stato, la legittimità alle Camere elette con quella legge.
È evidente che però una tale decisione avrebbe dovuto comportare un’immediata e conseguente presa d’atto del Presidente della Repubblica come massimo garante della Costituzione stessa, con lo scioglimento delle Camere e l’indizione immediata di nuove elezioni con la legge elettorale residuata dalla sentenza della Corte Costituzionale. Ciò sciaguratamente non è stato.
Il Presidente Napolitano adottò ben altre scelte. Non sciolse le Camere, anzi diede l’incarico di formazione di un Governo inviandolo alle Camere stesse per la fiducia. E se ciò poteva trovare una fragile motivazione nella necessità di rispondere tempestivamente alle impellenze della crisi economica, si è dimostrato invece assolutamente irragionevole, se non eversivo di fatto, quando quelle stesse Camere elette con legge elettorale incostituzionale si sono autoriconosciute il potere politico di riformare addirittura la Costituzione stessa con la maggioranza fissata dall’art.138. Ma Camere elette con una legge elettorale non rappresentativa, come sentenziato dalla Corte Costituzionale, non possono usare l’articolo 138 della Costituzione stessa per riscriverla, proprio perché nella determinazione delle maggioranze fissate dall’articolo 138, le stesse sono alterate pesantemente nella rappresentanza proprio da quei premi di maggioranza che la Corte Costituzionale ha condannato risolutamente.
Questo insanabile difetto genetico, si accompagna all’altra mostruosità: le modifiche sono state adottate su iniziativa del Governo stesso. Anzi il Governo usa le modifiche costituzionali e il conseguente referendum come mera fonte di legittimazione politica al proprio lavoro.
Questo è un atto di assoluta irresponsabilità. Il Governo scarica così il peso della insufficienza e della incapacità della sua politica nel dare risposte ai problemi urgenti del Paese sulle spalle delle già fragili istituzioni repubblicane, fiaccate da un ventennio di riforme che le hanno rese sempre più distanti dalle masse popolari e dai loro problemi quotidiani.
Questa irresponsabilità mette a serio rischio la tenuta delle istituzioni repubblicane democratiche, solo per cercare di dare continuità ad una esperienza di Governo che si è già dimostrata nei fatti sterile ed incapace di fronteggiare la complessità della crisi economica e sociale. Con questa revisione costituzionale Il Paese sarebbe chiamato a pagare troppo a lungo un prezzo troppo alto per un risultato così misero ed estemporaneo come il rafforzamento di un esecutivo fragile e sempre più privo di consenso popolare.
Detto questo, per la critica nel merito dei contenuti, della sciatteria del testo e della confusione istituzionale e legislativa che determinerà la revisione, rinvio a quanto acutamente osservato e analizzato puntualmente dal Professore Alberto Coppola e da tanti illustri costituzionalisti e non vi ritorno, se non per sottolineare il volgare ennesimo tentativo di sottrarre ulteriormente le istituzioni al consenso popolare (Senato di nominati), giocato sulla meschina propaganda antipolitica della riduzione dei costi: in cambio di un risparmio di 83 centesimi di euro l’anno, il cittadino rinuncerà infatti alla possibilità di votare il proprio Senatore, lasciando di fatto che siano i Consiglieri Regionali ad autonominarsi Senatori.
Un contenuto irricevibile in sé quindi, estremamente dannoso per le istituzioni democratiche, al di là anche della legittimità stessa del processo di revisione o di considerazioni politiche contingenti sulla natura del Governo che le ha avanzate. Ritengo possa essere utile che avanzi qui al lettore interessato qualche considerazione politica più generale sullo stato del nostro Paese in questa fase così delicata della sua vita sociale e politica.
L’aver portato il Paese a questo Referendum, a prescindere anche dal risultato stesso, è stato un azzardo da giocatore di poker. La posta, come al solito, però la mettono gli italiani.
Sono troppi anni, direi dall’inizio degli anni 90, che, in particolar modo da sinistra e dagli sciagurati liquidatori della storia comunista, si vive la politica come una mano di poker dove ci si siede al tavolo per vincere e prendere tutta la posta. Da Occhetto in poi, o in giù direi, è stato un fiorire di riforme e controriforme fatte per alterare la volontà popolare. Tutte le leggi elettorali erano scritte dalla più grande delle minoranze di turno per poter comandare il Paese, a prescindere dal consenso e dalla reale volontà della maggioranza dei cittadini.
Questo è il processo che ha reso la politica “ladra”: la politica è “ladra” non solo perché i deputati o i consiglieri sono corrotti o immorali, ma soprattutto perché ha dimostrato la più assoluta incapacità di rappresentare la reale volontà dei cittadini ed i loro interessi materiali e perché ha cercato di sottrarsi alla responsabilità della propria incapacità rubando pezzo per pezzo tutti i residui spazi di sovranità popolare.Dice Benedetto Croce: “Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica? L’onestà politica non è altro che la capacità politica”.
A piccoli e grandi passi questa politica “ladra” (perché “incapace”) ha via via reso le istituzioni impermeabili ai bisogni del popolo e le ha messe invece al servizio permanente ed effettivo dei grandi interessi economici, spessissimo extranazionali, se non antinazionali.
I sistemi elettorali maggioritari sono stati quindi il vero grimaldello che ha aiutato questa politica a farsi “ladra”, cioè “incapace” ed immune da qualsiasi giudizio popolare. Tutta la vicenda della Unione Europea stessa non è estranea a questo furto, anzi è il motore principale di questo processo di svuotamento della rappresentanza democratica delle istituzioni.
Quando l’Unione Europea stabilisce che l’equilibrio dei bilanci e dell’inflazione viene prima del diritto al lavoro, perché riconosce nei suoi trattati costitutivi una certa quota di disoccupazione come permanente, entra in conflitto palese con l’articolo 1 della nostra Costituzione, nega come finalità primaria delle istituzioni il “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” alla libertà e all’eguaglianza dei cittadini postulate dall’art.3, fissa viceversa come strutturale e tollerabile l’esclusione permanente di cittadini da un diritto fondamentale come il lavoro. E lo fa, peraltro, senza che alcun italiano si sia mai potuto esprimere su queste scelte.
Su tutto questo occorrerà seriamente ragionare perché vi sia un “dopo” a questo Referendum. Occorrerà ricreare le condizioni di un collegamento reale tra popolo e istituzioni democratiche, che siano realmente rappresentative del corpo pulsante del Paese, dei suoi conflitti, delle sue trasformazioni sociali ed economiche.
Basta con i tavoli di poker. La storia, le costituzioni, sono scritte come esito dei processi reali nel corpo profondo della società, delle modificazioni e delle trasformazioni del Paese. La democrazia è conflitto, è capacità di rappresentarlo e di produrre la sintesi storicamente possibile tra le forze che attraversano e danno corpo alla società. Altrimenti non è, ed è invece qualcosa che si avvia inevitabilmente ad assomigliare alle esperienze drammatiche che il nostro paese ha già attraversato nel secolo scorso, sfociate nella dittatura e nella guerra.
Una sorta di strisciante rivoluzione passiva ed autoritaria, fatta di scivolamenti e progressivi restringimenti degli spazi della partecipazione democratica, di espropriazione crescente della sovranità popolare.
Io penso quindi che per dare una prospettiva di cambiamento vero e profondo al Paese e alle sue istituzioni occorra in via prioritaria votare No a questo referendum. Due sarebbero poi le modifiche costituzionali e istituzionali da mettere in campo il giorno dopo il referendum e perciò qui le avanzo affinché siano oggetto di discussione e confronto sin da ora: Una sola Camera dei Deputati con circa 600 deputati (1 ogni centomila abitanti). Suffragio universale: legge elettorale proporzionale pura, con collegi di grandi dimensioni, ed estensione del diritto di voto a tutti coloro che stabilmente vivono sul territorio nazionale.
Questo è il lavoro vero che una politica non ladra ha di fronte, una politica capace che voglia farsi carico della fatica di essere al servizio effettivo ed interprete efficace del Paese e dei suoi bisogni e che consideri il voto popolare non un inutile e fastidioso rito pluriennale da superare a botte di propaganda mediatica, ma solo il momento supremo di effettiva verifica della propria capacità di guidare il Paese. Una politica che ha paura del consenso popolare è soltanto una politica incapace”.