Beni mobili, immobili ed aziende, per un valore complessivo di oltre 38 milioni di euro, sono stati confiscati dai Finanzieri del Comando Provinciale di Roma ai fratelli Domenico e Giovanni Dell’Aquila, ritenuti intranei al noto clan camorrista “Mallardo” di Giugliano (Napoli), e a Vittorio Emanuele Dell’Aquila e Salvatore Cicatelli, rispettivamente figlio e fiduciario di Giovanni Dell’Aquila, per conto del quale avevano costituito una cellula economica, operante, prevalentemente, nel territorio del basso Lazio.
La confisca di secondo grado, sancita dalla Corte di Appello di Roma, costituisce l’ultimo capitolo, salvo ricorsi in Cassazione, in alcuni casi già proposti, di un percorso giudiziario che ha visto il Tribunale di Latina disporre, nel giugno 2013, il sequestro di prevenzione e, nel giugno 2014, la confisca di primo grado, sui medesimi beni, ritenendo fondato il quadro accusatorio formulato dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, sulla base delle evidenze investigative fornite dal Gico (Gruppo investigazione criminalità organizzata) del nucleo di polizia tributaria di Roma.
Le complesse indagini di polizia economico-finanziaria, avviate nel 2012, hanno consentito di accertare la costante ed inarrestabile ascesa, nella provincia di Latina, nella provincia di Napoli ed in parte in Emilia Romagna, dei fratelli Dell’Aquila, noti imprenditori campani, attraverso rapporti dai reciproci vantaggi con esponenti di spicco del clan Mallardo.
In particolare, la feroce operatività criminale del clan è stata nel tempo orientata, oltre che al finanziamento del traffico di sostanze stupefacenti, prevalentemente al controllo – realizzato con la partecipazione finanziaria o con la riscossione di quote estorsive – delle attività economiche di rilievo (attività edilizia, appalti pubblici, forniture pubbliche, commercio all’ingrosso).
In tal senso, emblematica è la definizione accademica dell’“impresa camorrista”, resa da un noto pentito di camorra rispetto al modo di fare impresa del clan Mallardo: non impone il pizzo estorsivo, ma gli esponenti di rilievo di tale organizzazione camorristica entrano “di fatto” in società con gli imprenditori, di modo che questi ultimi diano una parvenza di liceità all’attività economica, mentre i camorristi partecipano direttamente ai guadagni, riuscendo, contestualmente, a reimpiegare i proventi derivanti da altre attività delittuose.
Il provvedimento della Corte di Appello di Roma, datato 20 febbraio 2017 ribadisce, pertanto, la solidità dell’impianto accusatorio formulato dalla Dda di Roma, sia per quanto concerne la pericolosità sociale di Domenico, Giovanni e Vittorio Emanuele Dell’Aquila, ai quali è stata confermata la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno nel Comune di loro residenza – con la riduzione della durata da cinque a un anno, in favore del solo Vittorio Emanuele – sia in ordine alla manifesta sproporzione tra il patrimonio mobiliare, immobiliare e societario ai medesimi riconducibile e la rispettiva situazione reddituale, ordinando la confisca di tutti i beni individuati.
Si tratta di: patrimonio aziendale e relativi beni di 11 società, con sede nella provincia di Latina, Napoli, Caserta e Bologna, di cui tre operanti nel settore delle costruzioni di edifici, una nel commercio di porcellana, due nel commercio di autoveicoli, due nel settore dell’intermediazione immobiliare e tre nel settore alberghiero e della ristorazione; quote societarie di ulteriori due società, con sede nella provincia di Napoli e Bologna, operanti nel settore della costruzione di edifici; 68 unità immobiliari (site nella provincia di Latina, Napoli, Caserta, Ferrara e Bologna); 19 auto/motoveicoli; 15 rapporti bancari/postali/assicurativi/azioni; per un valore complessivo di stima dei beni sottoposti a confisca pari esattamente a 38 milioni e 183.094 euro.