L’ex presidente del Consiglio di amministrazione dell’istituto psico-pedagogico “Lucia Mangano” di Sant’Agata li Battiati (Catania), Corrado Labisi, 65 anni, è stato arrestato dalla Direzione investigativa antimafia nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Catania su un presunto “buco” da 10 milioni di euro nella gestione dell’istituto. Nei suoi confronti è stata emessa un’ordinanza in carcere per associazione per delinquere e appropriazione indebita, in qualità di “capo, organizzatore e promotore” della presunta frode. Disposti gli arresti domiciliari per sua moglie, Maria Gallo, 60 anni, per la loro figlia, Francesca Labisi, di 33, e per due collaboratori, Gaetano Consiglio, 39, e Giuseppe Cardì, 57.
Secondo l’accusa, Labisi avrebbe “gestito i fondi erogati dalla Regione Siciliana e da altri Enti per fini diversi dalle cure ai malati ospiti della struttura, distraendo somme in cassa e facendo lievitare le cifre riportate sugli estratti conti accesi per la gestione della clinica, tanto da raggiungere un debito di oltre 10 milioni di euro”. Dall’inchiesta, denominata “Giano bifronte” e coordinata dal procuratore Carmelo Zuccaro, dall’aggiunto Sebastiano Ardita e dal sostituto Fabio Regolo, è emerso che Labisi – organizzatore di due noti premi internazionali antimafia, quello dedicato alla madre “Antonietta Labisi e il “Livatino-Saetta-Costa – sarebbe anche legato alla massoneria. L’istituto “Lucia Mangano” era stato al centro di una perquisizione per l’acquisizione di documenti e atti alla fine del settembre del 2017.
Intanto, gli uomini della Dia di Catania, diretto dal capocentro Renato Panvino, coadiuvati da colleghi di altri centri, sta eseguendo ispezioni in banche in cui sono accesi conti correnti della casa di cura per anziani e disabili che, secondo la Procura ha un “buco” di 10 milioni, per eseguire un sequestro preventivo per oltre 1,5 milioni di beni. Perquisizioni, disposte dalla Procura distrettuale di Catania, sono in corso anche in domicili e in sedi in cui gli indagati hanno eletto il loro domicilio alla ricerca di documenti utili all’inchiesta. La magistratura catanese ha inoltre chiesto un’istanza di fallimento nei confronti dell’istituto medico psicopedagogico Lucia Mangano: se la richiesta dovesse essere accolta agli indagati potrebbero essere contestati anche altri reati finanziari.
“Dobbiamo capire a 360 gradi se c’è qualcuno che deve pagare perché questa è la schifezza fatta a uno che si batte per la legalità… vediamo a chi dobbiamo fare saltare la testa”. Così Corrado Labisi, intercettato, parla con un amico, già appartenente al ministero della Difesa, all’indomani di una perquisizione eseguita dalla Dia, su delega della Procura, nell’istituto “Lucia Mangano” e al suo commercialista. In questa circostanza, sottolineano dalla Procura, “chiaro appare il riferimento alla struttura investigativa della Dia”, diretta da Renato Panvino, e “ai magistrati inquirenti che svolgono le indagini”, il procuratore Carmelo Zuccaro, l’aggiunto Sebastiano Ardita e il sostituto Fabio Regolo.
Così come accertato nel corso di altre indagini, ricorda la Procura Distrettuale etnea, “Corrado Labisi ha mantenuto contatti con il pregiudicato Giorgio Cannizzaro, noto esponente della ‘famiglia’ mafiosa Santapaola-Ercolano”. Labisi, osserva ancora la Procura, era riuscito a “costruirsi una immagine modello di sé, tanto da indurre soggetti a lui legati a sostenerlo nelle sue iniziative, essendo considerato un paladino in difesa della legalità” e promotore di due premi antimafia: l’“Antonietta Labisi” e il “Livatino-Saetta-Costa”.
Secondo il giudice per le indagini preliminari, la personalità dell’indagato si pone come connotata da un rilevante tasso di pericolosità sociale: “Da una parte le millantate amicizie importanti con apparati dello Stato o addirittura con i servizi segreti, dall’altra i rapporti di amicizia con mafiosi di grosso calibro, come Cannizzaro”, al quale, ricorda la Procura, “riserva un posto addirittura nelle prime file della chiesa dove si stanno celebrando i funerali della madre”. Una doppia personalità, secondo l’accusa, che ha denominato l’inchiesta “Giano bifronte”.