Era il 19 marzo 1994 quando Giuseppe Diana, per tutti “Don Peppino”, fu assassinato dalla camorra all’interno della sua parrocchia di San Nicola da Bari, a Casal di Principe (Caserta). Cinque i proiettili che uccisero il 36enne, sparati da chi vedeva come una minaccia l’impegno del prete contro la mafia. Suo il celebre documento Per amore del mio popolo non tacerò, uno scritto con cui manifestava la volontà di sfidare gli atti criminosi dei clan.
La formazione e la vita ecclesiastica di Don Peppino – Giuseppe Diana nacque a Casal di Principe il 4 luglio del 1958, non lontano da Aversa in provincia di Caserta. Proprio ad Aversa iniziò i suoi studi prima di proseguire in seminario a Posillipo presso la sede della Pontificia facoltà teologica dell’Italia Meridionale. Prima di essere ordinato sacerdote nel 1982, si laureò in Filosofia all’Università Federico II di Napoli e nel 1978 iniziò a far parte dell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (Agesci) dove divenne caporeparto. Il 19 settembre 1989 divenne il nuovo parroco della parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe, ma nel frattempo aveva iniziato a insegnare in un liceo, in un istituto tecnico industriale statale e in un istituto alberghiero.
La lotta alla camorra e il suo “Per amore del mio popolo” – Fu proprio tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 che Don Peppino Diana iniziò la sua battaglia contro la camorra. Erano gli anni in cui i clan casalesi controllavano già la maggior parte dei traffici illeciti. Come ha scritto Saviano, “Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo ‘fatevi coraggio’ alle madri in nero. A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: Per amore del mio popolo non tacerò”. Si tratta di uno scritto pubblicato il giorno di Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona: una testimonianza palese del suo impegno contro la camorra, descritta da Diana come “una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana…(gestisce) traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”.
L’omicidio di Don Diana – Il 19 marzo 1994, nel giorno di San Giuseppe, quindi del suo onomastico, alle 7.20 del mattino Don Peppino Diana fu ucciso nella sacrestia della sua chiesa, mentre si stava preparando per celebrare la messa. Furono cinque i colpi sparati: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Si trattò un omicidio che sconvolse la comunità di Casal di Principe ma non solo: appena un anno prima, a Palermo, era stato ucciso Don Pino Puglisi. Appariva chiaro che la mafia non risparmiava nessuno, neppure gli uomini di Chiesa. Un messaggio di denuncia e di cordoglio venne inviato anche da Giovanni Paolo II durante l’Angelus del giorno successivo. Al suo funerale, il 21 marzo, furono oltre 20mila le persone presenti tra cui tutti i gruppi scout e gli alunni delle scuole dove insegnava.
Il processo per l’omicidio Diana – Furono numerosi i tentativi di depistaggio durante le indagini del processo avviate poco dopo l’omicidio di Don Peppino Diana. In molti provarono a screditare l’immagine del parroco accusandolo addirittura di far parte lui stesso dei clan. “Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan…Così distruggere l’immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale”, ha commentato Roberto Saviano. Per l’omicidio venne condannato all’ergastolo il camorrista Nunzio De Falco, il 30 gennaio 2003, come mandante dell’assassinio. In un primo momento, lo stesso De Falco tentò di accusare il clan rivale degli Schiavone come colpevoli dell’omicidio ma Giuseppe Quadrano, autore materiale dell’omicidio (ragion per cui fu condannato a 14 anni) e successivamente collaboratore di giustizia, ammise il coinvolgimento di De Falco. Il 4 marzo 2004 la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell’omicidio.