Gli storici clan della criminalità barese avevano messo le mani sul settore dei giochi. Lo ha accertato la Guardia di finanza al termine di un’indagine che ha portato all’emissione da parte del gip di 36 ordinanze di custodia cautelare in carcere. Dall’inchiesta, coordinata dalla Dda di Bari, è emerso che i membri dell’organizzazione avevano concentrato i propri interessi sull’installazione e sulla gestione degli apparecchi di intrattenimento nei negozi e nelle sale gioco in città.
Dei 36 soggetti coinvolti nell’inchiesta, condotta dagli uomini del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Bari e da quelli del Gico, alcuni appartengono a storici clan baresi: gli Anemolo, gli Strisciuglio e i Capriati. Oltre agli arresti, i finanzieri di Bari e dello Scico di Roma stanno eseguendo sequestri di beni per un valore complessivo di oltre 7,5 milioni. L’imprenditore barese Baldassarre D’Ambrogio, socio di fatto di imprese e sale giochi a Bari e provincia, usufruendo della fama criminale dello zio pregiudicato Nicola D’Ambrogio, ritenuto tra i reggenti del clan Strisciuglio, avrebbe gestito per anni in modo quasi monopolistico il mercato delle videolottery sull’intero territorio. Entrambi, zio e nipote, sono finiti oggi in carcere insieme con altre 25 persone, prevalentemente affiliati a clan mafiosi della città, nell’operazione della Guardia di Finanza ‘Gaming Machine’.
Gli arresti domiciliari sono stati invece concessi ad altri 9 indagati, tra i quali le mogli dei due D’Ambrogio, Antonella Pontrelli e Maria Cantalice. Agli indagati, in totale 49, sono contestati, a vario titolo, i reati di illecita concorrenza con violenza e minaccia, con l’aggravante del metodo mafioso, estorsione, riciclaggio, usura, contrabbando di sigarette e detenzione abusiva di armi clandestine. I fatti contestati risalgono agli anni 2012-2019. L’ordinanza d’arresto è stata emessa dal gip del Tribunale di Bari Giovanni Abbattista.
Stando alle indagini di Gico e Scico della Guardia di Finanza di Bari, coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dalla pm della Dda di Bari Bruna Manganelli, Baldassarre D’Ambrogio, imprenditore nel circuito di scommesse, si sarebbe accordato con i vertici dei clan mafiosi di Bari e provincia per «compiere atti di concorrenza sleale – si legge negli atti – imponendo una posizione dominante nel mercato dei videopoker e di altri apparati da intrattenimento elettronici», attraverso «la minaccia e l’assoggettamento omertoso». In particolare le organizzazioni mafiose facenti capo a Nicola D’Ambrogio, alias ‘TròTrò’, e Lorenzo Caldarola (clan Strisciuglio), Vito Valentino, Giuseppe Capriati, Vincenzo Anemolo, Domenico e Gaetano Capodiferro – tutti destinatari della misura cautelare in carcere – «si sono divisi il territorio barese in zone di influenza, reciprocamente rispettate, per acquisire in modo esclusivo e monopolistico (direttamente o indirettamente tramite imprenditori collusi) la gestione o comunque il controllo della distribuzione delle apparecchiature da gioco (videopoker, slot machine) nei locali pubblici e delle sale gioco autorizzate (gestione dei totem e delle VLT videolottery)», anche attraverso l’estromissione di altri imprenditori concorrenti operanti nello stesso settore.
C’è «il gotha di tutti i clan più importanti di Bari» nell’indagine sulle presunte infiltrazioni della criminalità mafiosa barese nel settore del gioco, che ha portato oggi all’arresto di 36 persone e anche al sequestro di beni per 7,5 milioni di euro. Lo ha detto il procuratore Giuseppe Volpe, spiegando che i clan della città «alteravano il mercato della concorrenza imponendo con metodo mafioso i videopoker che il monopolista Baldassarre D’Ambrogio, la mente dell’intero sistema illecito, voleva fossero installati». Il procuratore aggiunto Roberto Rossi, che ha coordinato l’inchiesta ‘Gaming Machine’ con la collega Bruna Manganelli, ha evidenziato il «controllo economico assoluto del territorio da parte dei clan che, quando si tratta di soldi, trovano subito un accordo». L’indagine ha accertato, infatti, che «l’intero sistema di gioco apparentemente legale, tra i settori economici più rilevanti del territorio, è in mano alla criminalità. Il dato economico è spaventoso – ha spiegato Rossi – perché il giro d’affari è di centinaia di milioni di euro».
Il guadagno per i clan sarebbe stato da un lato il compenso corrisposto dall’imprenditore per aiutarlo ad installare i suoi apparecchi, fisso (mensile o per ciascuna macchinetta installata, dai 100 ai 500 euro) o come percentuale sulle vincite; dall’altro, la possibilità di riciclare il denaro sporco attraverso attività legali. Agli atti dell’indagine ci sono intercettazioni telefoniche e le dichiarazioni di dieci collaboratori di giustizia. L’inchiesta è partita nel 2015 dalla «coraggiosa denuncia», dicono gli inquirenti, di un commerciante barese, titolare di una tabaccheria, vittima di usura ed estorsione. «Queste persone si mettono a portare cose e non mi avvisano. Alla fine il bar non è più mio, è vostro, è di tutti – si legge in una intercettazione tra il commerciante vittima e un indagato -. Quello impone una cosa, quello ne impone un’altra, tu ne imponi un’altra ancora. E io che ci sto a fare qui? Il pupazzo?». Gli accertamenti della Guardia di Finanza hanno documentato, con riferimento al reato di usura, prestiti per circa 150mila euro con tassi di interesse fino al 2.000% annuo. Tra i beni sequestrati ci sono 3 sale giochi, 2 aziende, 4 immobili, 5 auto e 205 conti correnti. IN ALTO IL VIDEO