Carabinieri “informatori della camorra” arrestati nel Napoletano

di Redazione

Corruzione, omissione in atti di ufficio e rivelazione di segreti: queste le accuse che la Direzione distrettuale antimafia di Napoli contesta, a vario titolo, a otto carabinieri nei confronti dei quali sono stati notificati cinque arresti domiciliari e tre sospensioni, della durata di un anno, dall’esercizio del pubblico ufficio. Le indagini che hanno portato all’emissione delle misure cautelari, da parte del gip di Napoli, sono state condotte dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Castello di Cisterna, coordinati dai pm Antonella Serio e Giusy Loreto del pool anticamorra della Procura guidata dal procuratore Giovanni Melillo.

Ai domiciliari, per corruzione, sono finiti Michele Mancuso, Angelo Pelliccia, Francesco Di Lorenzo, già presidente del consiglio comunale di Sant’Antimo, Raffaele Martucci, Vincenzo Palmisano e Corrado Puzzo e il boss Pasquale Puca (già in carcere in regime di 41 bis) tutti con esclusione dell’aggravante mafiosa. La misura interdittiva è stata disposta nei confronti di Vincenzo Di Marino, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio e omissione, il capitano Daniele Perrotta, che deve difendersi dall’accusa di omissione di atti d’ufficio, e Carmine Dovere, indagato per abuso d’ufficio. Anche per loro è stata esclusa l’aggravante mafiosa.

I militari dell’Arma indagati, secondo l’accusa, avrebbero assicurato libertà di movimento e impunità a esponenti dell’organizzazione camorristica ritenuta capeggiata dal boss Pasquale Puca, egemone sul territorio di Sant’Antimo, nell’are a nord di Napoli. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Claudio Lamino.  La Procura aveva formulato anche l’ipotesi di concorso esterno in associazione camorristica, ma questa impostazione non è stata condivisa dal giudice, che ha escluso anche l’aggravante della finalità mafiosa. Su questo punto la Procura ha già proposto ricorso al Riesame.

Nel corso dell’inchiesta è emersa anche una manovra che sarebbe stata concepita e poi realizzata per allontanare dalla tenenza di Sant’Antimo un maresciallo, Giuseppe Membrino, che rappresentava, hanno sottolineato gli inquirenti, “un argine solidissimo ai tentativi del clan di sottrarsi al controllo delle attività illecite”. Il maresciallo fu pedinato e fotografato dal clan nel tentativo di intimidirlo e ricattarlo. Poi fu fatta esplodere una bomba carta sotto la sua vettura, costringendo l’Arma a disporne il trasferimento per motivi di sicurezza.

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