di Pasquale Giuliano* – Una volta la Politica si insegnava e si imparava soprattutto nelle scuole dei Partiti. Tra le più note ed attive, per limitarci ai principali Partiti dell’epoca, furono quelle della “Camilluccia”, della Democrazia Cristiana, e quella delle “Frattocchie”, del Partito Comunista. Vi insegnarono famosi leader ed apprezzati intellettuali e da quelle fucine uscirono stimati esponenti di governo e politici di primo piano. Con la crisi dei Partiti, sfociata nel loro totale disfacimento, quelle palestre scomparvero del tutto.
Il leaderismo e la rivoluzione digitale hanno poi dato il colpo di grazia ed hanno cancellato ogni esigenza di formazione politica, relegandola, sostanzialmente, al solo legittimante “gradimento-asservimento” al capo-partito. Una volta, quindi, apprezzamento, credibilità e carisma derivavano pressoché esclusivamente da verificate capacità maturate nel tempo grazie ad una seria preparazione affidata alla mediazione di qualificati maestri. Peraltro, lo stesso prestigio conquistato nelle professioni, nelle arti e nelle attività lavorative di provenienza costituiva un rilevante viatico per chi voleva intraprendere e percorrere la non facile strada della Politica.
I tempi che viviamo, però, ci hanno “insegnato” che tutto questo non conta più nulla, o conta assai poco. Ora, addirittura, per il successo in politica e per acquisire notorietà e quindi consenso, può bastare anche il solo “lancio” o il sostegno di un buon cabarettista o di qualche popolare comico. E’ vero che spesso si afferma che la politica è anche teatro, ma solo pochi anni fa sarebbe stato un vero azzardo immaginare che, nientemeno, per conquistare il potere e per conservarlo sarebbe bastato, a prescindere dai meriti, un coup de theatre ad opera di un cabarettista o di un comico o di un imitatore. Oddio, per la verità, proprio molti anni fa ci fu un primo presagio del nostro attuale scenario. Forse non tutti lo ricorderanno, ma negli anni ‘80 il comico francese Coluche, di padre italiano, conquistò una tale visibilità politica che si sentì legittimato a tentare la scalata alla Presidenza della Repubblica francese, conclusasi però con una sua rovinosa ritirata. Di quella vicenda, che allora agitò il sonno dei politici e fu letta quasi come un incidente della Storia, è rimasto vivo solo il ricordo dell’irriverente grido di battaglia di Coluche: è meglio votare per un coglione come me che votare per qualcuno che vi prende per un coglione. Uno slogan che potrebbe ai giorni nostri, almeno per la candida verità della sua prima parte, ben rappresentare una componente del campionario pubblicitario di non pochi politici e governanti nostrani.
Da noi, ormai, dei veri e propri capi politici, perché hanno “prodotto” e sostenuto molti degli attuali leader nazionali e governanti, possono senz’altro essere considerati Beppe Grillo e Maurizio Crozza. Sono, costoro, troppo noti per ricordarne le “spettacolari” gesta. Il primo, con fiuto, intelligenza e visionaria spregiudicatezza ha fatto politica facendo ridere e, in nome di un’antipolitica disfattista, demagogica e ingannevole, costruita sapientemente con accattivanti slogan urlati in colorite e colorate manifestazioni di piazza, ha portato al potere molti personaggi che fanno ridere facendo politica e disastri quando addirittura governano. I nomi di costoro sono sulla bocca di tutti ed enumerarli e ricordarne i profili personali e pseudo- professionali costituirebbe solo un riprovevole esercizio di perfida cattiveria volto ad alimentare un giustificato sconcerto ed una profonda depressione.
Il secondo, Crozza, con le sue dissacranti imitazioni, la sua inventiva, la sua accattivante capacità trasformistica ed il suo strabordante e divertente camaleontismo ha ridicolizzato e talvolta cancellato alcuni politici e, al contempo, ha regalato, forse inconsapevolmente, notorietà, fama e quindi simpatia e consenso a personaggi che non lo meritavano. E’ difficile, ad esempio, non riconoscere che il disastroso fallimento dell’avventura politica intrapresa pochi anni fa da Antonio Ingroia – noto magistrato siciliano assurto alle cronache nazionali per alcune sue indagini – fu in gran parte dovuto proprio alla magistrale, dissacrante imitazione che ne fece Crozza. Il comico, evidenziò, esasperandole, l’indolenza, l’apatia, l’intolleranza, la supponenza del personaggio, proponendole e rappresentandole con un’abrasiva vis comica che, proprio per la sua graffiante e feroce “insolenza”, demolì in maniera rovinosa l’immagine della vittima. Ingroia, così, precipitò disastrosamente durante la sua scalata politica e fu consegnato ai mezzi di comunicazione come un sopravvissuto che piange se stesso, vittima di se stesso e della sua urticante caricatura mediatica. Crozza, però, per converso, in alcuni casi è stato generoso, forse inconsapevolmente (il comico, al pari di Grillo, è genovese e come tale non “privilegia” la generosità). Il cabarettista-imitatore ha infatti dato una consistente mano a sostenere e poi a prolungare, immeritatamente, la fine della stagione politica del “personaggio” Vincenzo De Luca, il capataz della Regione Campania. Crozza gli ha regalato una insperata notorietà facendo leva sulla sua fluviale e parossistica oratoria da venditore di terraglie. Con una mimica ed una gestualità straordinarie, il cabarettista l’ha, però, ingigantita su una trama di stratosferici e demenziali paradossi, rafforzandola con schioppettate dialettiche degne di un esperto pubblicitario, condendola con un narcisismo senza frontiere e proponendola con tempi e pause teatrali magistrali.
Insomma, uno spettacolo godibile perché surreale, allegramente scoppiettante, degno del barone di Munchausen. Crozza, divertendo, ha così creato, modellato e reso popolare quel colorito personaggio, offrendo al satrapo Vincenzo De Luca il destro, da questi afferrato al volo, di trasformarsi egli stesso in Crozza. E questa coinvolgente equivoca doppiezza ha, sinora, divertito, tant’è che l’elettore si coinvolge, in una sorta di calembour, e si sfida nell’esercitarsi, nell’ambigua sovrapposizione quasi pirandelliana, a distinguere l’uno dall’altro e a indovinare se quelle frasi brandite con istrionica sicumera, in spettacolare conflitto con ogni lapalissiana realtà, appartengano al Tartarin di Tarascogna politico o al Tartarin di Tarascogna cabarettista. Questa situazione rocambolesca ha generato una larga aura attrattiva intorno al politico-teatrante ed una sua buona notorietà, sfociata, inaspettatamente, in una disponibilità da parte dello spettatore-elettore – diventata quasi una tollerante accondiscendenza – ad accettare e a “giustificare”, seppure con un malcelato sorriso venato di incredulità, tutte le “palle” simili a mongolfiere che il “venditore da palcoscenico” ogni giorno partorisce ed espelle con il lanciafiamme, arma a lui congeniale.
Come, da ultimo (a fronte del dato obbiettivo che vede la Campania in coda a tutte le Regioni nella “classifica” dei tamponi eseguiti), la rappresentazione di se stesso quale insormontabile barriera contro l’epidemia da covid-19. Vero è, però, che, al di là di questa sua ultima favolistica e quotidiana rappresentazione di santo protettore, ogni persona sana di mente e nell’età della ragione ha capito molto bene che, in effetti, siamo stati solo graziati dalla Sorte e dal lento progredire del virus verso Sud. Se il contagio si fosse propagato in Campania in maniera rapida e massiccia come al Nord, sarebbe stata per noi una immane tragedia, per la disastrosa inadeguatezza del nostro sistema sanitario territoriale, in massima parte attribuibile alle infelici e devastanti scelte politiche e gestionali del capataz. In effetti, a parte le sue autocelebrazioni mirate a costruirsi un monumento, ci siamo sinora “salvati” dal covid (insieme alla Calabria, alla Puglia e a qualche altra Regione del Centro e del Sud) solo per la singolare combinazione astrale tra l’ammirevole senso di responsabilità dei Campani, alimentato da una giustificata e sana paura, la nostra “storica” resilienza e la prontezza, tutta meridionale, nell’“appropriarsi”, migliorandola, dell’esperienza terapeutica acquisita sui contagiati del nord. Se fosse accaduto quello che fortunatamente non è accaduto, l’unica e disperata “arma” a nostra disposizione, dato il nostro sistema sanitario, sarebbe stata la famosa, straziante invocazione al Cielo lanciata nell’altrettanto famoso lavoro di Eduardo, circolata sui social in quest’ultime settimane di quarantena: “Maronna d’’o Carmine… aiutaci tu”!
Questa generosa “apertura” che i Campani hanno sinora regalato più al “commediante” che al politico delle luminarie – signore delle fritture di pesce e infaticabile spacciatore di stratosferiche “palle” – e più al suo distrattivo, gratuito e quotidiano intermezzo da avanspettacolo, però, finirà di colpo quando, purtroppo tra non molto, tutti si renderanno pienamente conto del baratro in cui stiamo precipitando “grazie” ad una politica costruita e condotta all’insegna solo di una lacrimevole, grottesca finzione, in difesa di un sistema di potere da basso impero. Allora non basteranno né la suggestione del teatrante, né la notorietà regalatagli da Crozza, né la finta bonomia , né le battute ad effetto studiate a tavolino, né il cipiglio di chi cavalca quotidianamente la tigre di una ingannevole verità; né, tantomeno, per alleggerire e rendere tollerante l’imminente fosco scenario, soccorrerà la sua prevedibile disponibilità a indossare perfino le vesti del “pazzariello”, con in testa il cappello da Napoleone di Salerno ornato di campanellini colorati e minuscoli triccheballacche. Perché, allora, la drammatica realtà farà svanire d’incanto disponibilità, tolleranza, simpatia e pazienza e il capataz, in presenza di una generale e cupa disperazione, non potrà che scomparire, perché si incepperà l’unica sua vera arma: non riuscirà più a far ridere nessuno. Allora, infatti, nessuno avrà più voglia né di ridere, né di sorridere.
*Magistrato, già Senatore della Repubblica e Sottosegretario alla Giustizia, presidente dell’associazione “Palaestra Normanna”