La realtà sociopolitica italiana ha conosciuto negli ultimi decenni radicali trasformazioni di natura strutturale. In questo suo tumultuoso divenire è scomparsa, in una sostanziale indifferenza e senza rimpianto, la mitica “classe operaia” e sembra essersi dissolta anche “l’operosa borghesia”.
La prima, magistralmente disegnata in “Tempi moderni”, il capolavoro di Charlie Chaplin, come vittima degli alienanti ritmi produttivi della fabbrica, fu, addirittura, prematuramente dichiarata morta ed assunta in Paradiso già agli inizi degli anni ‘70, almeno nel profetico titolo di un altro bel film: “La classe operaia va in Paradiso”, di Elio Petri. In effetti, la sua agonia iniziò nei primi anni ‘90, quando la rivoluzionaria automazione e robotizzazione della produzione industriale fecero dismettere a quella classe la chiave inglese, la tuta ed i tradizionali abiti da lavoro sostituendoli con il camice bianco e i guanti di lattice o di seta. E con il cambio della mise, unitamente al fallimento dell’ideologia marxista che l’aveva circondata di una aureola salvifico-rivoluzionaria, quella “classoperaia” incominciò a perdere la sua identità e il suo preteso e rivendicato ruolo storico.
Diversa è stata la sorte della plurisecolare “classe” borghese, vocata da sempre a produrre sviluppo e crescita nel culto di una religione del lavoro che santificava i doveri più che i diritti. Per riferirsi agli ultimi decenni, nel ’68, quando “l’accusa” di essere borghese sconfinava in un motteggio da lacerante insulto, subì una profonda trasformazione e, poi, nei primi anni ‘90, rimase stravolta dalla tempesta di tangentopoli. Quella borghesia, così, iniziò a smarrire il suo status sociale, culturale e politico, trascinandosi fino ai giorni nostri in una lenta ma significativa dissolvenza. La quale, però, tra i chiaroscuri, lascia ancora oggi intravedere profili suoi propri illuminati da intermittenti e nuovi sprazzi di luce. Ma, allora, davvero non può ancora dirsi addio a questa classe che, più che un fantasma, appare vittima, in espiazione e in sacrificio dei suoi tanti “peccati”, del suo stesso tentativo di eutanasia?
Da tempo, la (neo)borghesia non ha più saputo trasformare il suo naturale soffio vitale in vento di rinnovamento, culturale, civile, istituzionale, economico. Da troppi anni, l’insufficiente presenza, anche nella vita politica, di un ceto sociale produttivo, responsabile, consapevole e ambizioso presenta implicazioni ancor più gravi in una spirale dove è difficile separare con nettezza le cause dagli effetti, dove l’economia è più debole, dove le Istituzioni sono più fragili, dove l’ordine giuridico e sociale è più lasco e dove sembrano accreditarsi “nuove” ma discutibili categorie morali e deontologiche. Negli ultimi anni, paura, risentimento, sfiducia hanno permeato gli strati della borghesia sospingendoli verso un auto-allontanamento dalla vita pubblica; che spesso si è risolto in una vera e propria estraneità caratterizzata da una ripulsa intrisa di avversione, rancore e forti recriminazioni. Una borghesia che si allontana (anche) dalla politica e vive del (e con il) suo individualismo e in uno sterile ed insensato isolamento costituisce però un ossimoro: burgus, civitas, polis esprimono già nella nominalistica la necessità ontologica di una sua presenza attiva nella vita e nella politica della “città”. E forse mai come in questo momento, caratterizzato da stravolgimenti socio-economici, c’è l’’occasione storica per una sua rinnovata e più partecipata presenza.
Nel momento in cui l’ignoranza sembra diventata una virtù, l’incompetenza viene contrabbandata come purezza, l’inesperienza spacciata come candore e alcuni neo-mestieri e mestieranti santificati come portatori di una “cultura” innovativa, la Politica, in particolare, deve reclamare con forza contributi qualificati di saperi, di riconosciute professionalità, di efficacia e di passione civile in una sempre più complessa trama del vissuto sociale ed economico. La critica, i mugugni, ove dissociati dalla partecipazione, dall’approfondimento e dall’impegno, dissipano infatti solo risorse preziose e le forze produttive e meritoriamente trainanti dovrebbero, perciò, per indole e per secolare tradizione rinunciare a coltivare tale arido approccio alla vita pubblica.
Peraltro, riprendendo coscienza di sé e delle proprie responsabilità e della necessità di una sua attiva partecipazione, questa “classe” può arginare con efficacia anche le spinte, di varia matrice, dell’antipolitica; le quali, nella loro confusa missione di disgregazione dei ruoli, altro effetto non hanno, più o meno consapevolmente, che quello di consegnare la politica stessa all’opacità delle lobbies e dei poteri finanziari, al familismo d i attrezzate “congreghe” o, addirittura, a quei gruppi che fanno della rabbia e del risentimento, spesso dovuti alla loro stessa impalpabilità meritocratica, le ragioni del loro spregiudicato assalto al potere. Nella nostra Provincia, così come nel resto d’Italia, ci si attende dunque che questa preziosa energia “borghese”, che pure in tanti settori della società ancora si manifesta con costrutto e talora con esiti eccellenti, riprenda a sprigionarsi, imprimendo, con la sua costante presenza e nel grado più alto, la propria consistente e qualificata spinta per il rilancio del nostro territorio.
Nel Casertano, come pure in altre aree della Regione e del Paese, si avverte con forza la necessità della rentrée di una (neo)borghesia che si riappropri ed eserciti il suo ruolo, assumendosi anch’essa l’impegno, l’obiettivo e la responsabilità di una rinascita. Se il quadro finanziario nazionale ed internazionale attribuisce ormai senza riserve agli attori dell’economia una posizione centrale anche rispetto alle scelte ed alle politiche pubbliche, sul territorio appare quanto mai utile che alla qualità degli orientamenti del decisore pubblico contribuiscano attivamente, con intraprendenza e con coraggio quelle forze produttive locali che proprio nella borghesia hanno sempre trovato la loro naturale collocazione. Specie sul nostro territorio, questa loro indispensabile presenza sarà utile anche ad allontanare quei pericolosi “avventurieri” (mero eufemismo) che, da “diseredati” per loro stessa inconsistenza, con l’intento di perpetuare la loro professione di mestatori e scansafatiche, concepiscono la politica unicamente come la zattera di salvataggio dalla loro incultura, dalla loro inadeguatezza e dalla loro pericolosa inettitudine.