Addio Maradona, la poesia del professor Giuseppe Limone

di Redazione

Sant’Arpino (Caserta) – di Carla Caputo – Il mondo del calcio e non solo piange ancora la scomparsa del “El Pibe de oro”, Diego Armando Maradona, deceduto il 25 novembre scorso per un arresto cardiaco, all’età di 60 anni. Un uomo che è diventato, nel tempo, una specie di dio, al quale rendere omaggio e devozione. Sotto il suo nome è nata una cultura mista che vede due volti, quello argentino e quello napoletano, che, ammirando quel calciatore palleggiare la sua luna in terra, si sono riconosciuti come simili. – continua sotto – 

Con Maradona Napoli ha riscoperto la speranza, ha trovato – potremmo dire – un nuovo amore che non dimenticherà mai e che porterà per sempre nel cuore con orgoglio, ma anche umiltà. E proprio per ricordare tutto questo e molto altro, il filosofo e poeta, professor Giuseppe Limone, ha composto una poesia in suo onore; versi che con un’acutezza e, allo stesso tempo, una dolcezza disarmante ripercorrono la sua storia e il suo genio, la sua e la nostra Napoli. Una poesia, quella di Limone, che metaforicamente racconta un’altra poesia: quella che l’uomo e il campione Maradona ha scritto, attraverso la sua vita e la sua passione, sulla terra. – continua sotto –

Titolo: DIEGO ARMANDO MARADONA – Autore: Giuseppe Limone 

Intinse il suo dito in questo mare l’Altissimo fra il Vesuvio e Mergellina, disegnandovi un uovo e ne spuntò Diego Armando Maradona, cucciolotto inquieto, capelli scarmigliati dalla luna. Chi fosse il bimbo lo diceva il nome: Maradona, dono del mare. Dono del mare a chi? Rispondevano il suo prenome e il soprannome, in un anagramma nascosto e concentrato: Diego Armando el pibe de oro, dono del mare a Napoli attraverso l’anima di un dio. – Raccontarono poi che era venuto da terra argentina, nato da un grembo di poveri, dai dannati del mondo, quarto di sei figli, cocco delle tre sorelle più grandi e della madre adorata. Migrato in Spagna, Barcellona lo vestì dei suoi colori, Napoli lo fece tutto d’oro. Colmò gli stadi. Stupì la notte con la fiaba dei suoi passi raccontata dai sussulti delle stelle.  Palleggiava con la luna. In campo a inizio partita era l’Atteso da un mare d’occhi che facevano le fusa. Poi lui era la luce. – La sua trama di finte era un raggio laser che bucava il groviglio degli umani – e la giungla dei suoi marcatori era la cruna d’ago in cui passava il furto del suo gol. Nei guizzi divampati nello stadio era un orsacchiotto fatato, un pesce palla che non ti faceva vedere mai una palla. Passò il Rubicone e disse al suo popolo: Il dado è tratto, eccovi il sole. Pavimentata in azzurro, popolata di graffiti in ogni dove, improvvisa rinacque la città. – Nell’arco orbitale dello stadio Lui per i compagni e per gli spettatori era la stella Antares l’aquila e la guida la folgore la febbre e il primo amore. Dopo tremila anni per la seconda volta un giorno nacque chi strinse in un sol pugno questo mare insieme al pianto della sua ultima sirena restituendone il canto alla città. Dalla spuma era nata Afrodite, lui nacque dal sole. In suo onore, contro l’Italia gli italiani di Napoli tifarono Argentina. – Poi vennero i giorni difficili. Lui barcollò, cadde, si rialzò. Ebbe un sorriso gracile e indifeso. Non si arrese. Mai si dimise dall’umanità.  Piantò il suo regno nei cuori di quelli che lo videro nel verde e fecero lusso della povertà chiamandola passione. – Ora un suo capello vive a un crocevia, come in un palazzo degli Uffizi dei poveri o in un santuario di devoti: vi brilla come una lacrima del sole. Egli si donò a Napoli e partì. E a ogni suo ritorno Napoli intera si agglutina al suo eroe. Perché non si è più soli se si visse un amore e perché tutto l’amore è sole e brucia in petto come una palla d’oro.

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