23 indagati sottoposti a fermo nell’ambito dell’operazione “Xydi” condotta dal Ros dei carabinieri che ha smantellato a Canicattì, in provincia di Agrigento, un’organizzazione che stava rimettendo in piedi la “Stidda”, l’altra mafia siciliana, spesso ritenuta rivale di Cosa nostra. Tra i fermati anche il mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990. – continua sotto –
L’indagine è stata coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Gianluca De Leo. Gli indagati sono ritenuti a vario titolo responsabili di associazione di tipo mafioso (Cosa nostra e Stidda), concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento personale, tentata estorsione ed altri reati aggravati, poiché commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni mafiose indagate. – continua sotto –
Ci sono sei capimafia tra i destinatari delle ordinanze cautelari, compreso Giuseppe Falsone, boss di Agrigento, tre esponenti della Stidda, due delle forze dell’ordine, un ispettore e un assistente capo della polizia, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d’ufficio, oltre ad un’avvocatessa e al superlatitante Matteo Messina Denaro. Tra i fermati c’è Angelo Gallea, condannato come mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990. Dopo 25 anni di reclusione è stato posto in semilibertà per scontare il residuo di pena. Era lui, insieme a un altro ergastolano in semilibertà, il punto di riferimento attorno a cui si stava ricostruendo la Stidda. I due stavano riannodando i rapporti con Cosa Nostra, tasselli di una pax mafiosa tra le due organizzazioni funzionale agli affari delle cosche sul territorio. – continua sotto –
L’organizzazione si era infiltrata nel settore del commercio dell’uva e di altri prodotti ortofrutticoli della provincia di Agrigento che, “oltre a garantire rilevantissime entrate nelle casse delle organizzazioni, permetteva loro di consolidare il già rilevante controllo del territorio”. Ed è proprio in questo contesto che gli investigatori hanno anche sventato il progetto di un omicidio organizzato ai danni di un mediatore e di un imprenditore che non avevano corrisposto alla Stidda, a titolo estorsivo, mafiosa una parte dei guadagni realizzati con le loro attività. Non avevano pagato il pizzo e stavano per essere uccisi. – continua sotto –
Giuseppe Falsone, boss ristretto al 41 bis, sarebbe riuscito a interagire con altri uomini d’onore detenuti, mantenendo la direzione operativa della provincia mafiosa di Agrigento. Una guardia penitenziaria di Novara avrebbe consentito all’avvocatessa Angela Porcello non solo l’accesso al 41-bis, ma anche l’utilizzo di un telefono. Un altro agente l’avrebbe preavvertita che un suo assistito “l’indomani sarebbe stato trasferito in un’altra struttura, via aereo”. La Porcello sarebbe stata così in grado, in più occasioni di veicolare informazioni nelle riunioni all’interno dello studio legale. In questo modo Falsone restava al comando. Gli incontri avrebbero riguardato anche esponenti mafiosi di primo piano quali Luigi Boncori (capo della famiglia mafiosa di Ravanusa), Giuseppe Sicilia (capo della famiglia di Favara), Giovanni Lauria (capo della famiglia mafiosa di Licata), Simone Castello (uomo d’onore di Villabate, già fedelissimo di Bernardo Provenzano) e Antonino Chiazza (esponente di vertice della rinata Stidda).
Dall’inchiesta dei carabinieri del Ros emerge che Matteo Messina Denaro, capomafia trapanese latitante da 28 anni, è ancora riconosciuto come l’unico boss cui spettano le decisioni su investiture o destituzioni dei vertici di Cosa nostra. Il ruolo del boss di Castelvetrano viene fuori nella vicenda relativa al tentativo di alcuni uomini d’onore di esautorare un boss dalla guida del mandamento di Canicattì. Dall’indagine emerge che per realizzare il loro progetto i mafiosi avevano bisogno del beneplacito di Messina Denaro che continua, dunque, a decidere le sorti e gli equilibri di potere di Cosa nostra pur essendo da anni imprendibile. – continua sotto –
L’inchiesta conferma anche che non sono mai cessati gli storici rapporti tra la mafia siciliana e Cosa nostra americana scoperti già negli anni ’70 da Giovanni Falcone, il giudice ucciso a Capaci nel ’92. Dall’indagine è emerso che emissari statunitensi della “famiglia” dei Gambino di New York nei mesi scorsi sarebbero andati a Favara, nell’agrigentino, per proporre ai clan locali business comuni.
Il giudice Livatino venne assassinato il 21 settembre 1990 ad Agrigento sulla SS 640 mentre stava andando, senza scorta, in tribunale. Ad ucciderlo furono sicari assoldati dalla “Stidda” agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra. Livatino era a bordo della sua vettura, una vecchia Ford Fiesta, quando fu speronato dall’auto dei killer. Tentò disperatamente una fuga a piedi attraverso i campi limitrofi ma, già ferito da un colpo ad una spalla, fu raggiunto dopo poche decine di metri e freddato a colpi di pistola. Conosciuto col soprannome del “giudice ragazzino”, Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952. Nella sua attività si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana e aveva messo a segno numerosi colpi nei confronti della mafia, principalmente attraverso lo strumento della confisca dei beni. Dopo la sua morte, nel 1993, Giovanni Paolo II, incontrando ad Agrigento i suoi genitori, aveva definito Livatino “un martire della giustizia e indirettamente della fede”. Nel 2011 è iniziato il processo di beatificazione, che è terminato durante il papato di Francesco. La Santa Sede ha riconosciuto il martirio del giudice “in odium fidei” (“in odio alla fede”). La cerimonia di beatificazione di Livatino potrebbe svolgersi nella primavera del 2021 proprio ad Agrigento. IN ALTO VIDEO CON INTERCETTAZIONI