Aversa, cosa c’è “nella mente di un superficiale”? Intervista all’avvocato-scrittore Generoso di Biase

di Carla Caputo

Aversa (Caserta) – Quanto coraggio ci vuole a parlare a sé stessi e agli altri? È questa la domanda a cui sembra rispondere, attraverso pagine di diario, il protagonista di “Nella mente di un superficiale”, libro di Generoso di Biase, avvocato e scrittore aversano che con il suo romanzo, edito da Graus Edizioni, sta riscuotendo un notevole successo. – continua sotto –

Recente è, infatti, la sua partecipazione a uno dei format culturali più ambiti: “Mille e un libro”, programma televisivo di Gigi Marzullo, in onda su Rai 1. Ma le apparizioni sul piccolo schermo sono numerose, come nella rubrica “Leggilibri” del Tg3 Campania e su altre emittenti televisive campane. Ma per di Biase, a conferma delle sue qualità come romanziere, vi è la presentazione al Salone del Libro di Torino e un editoriale in prima pagina sull’importante rivista Proscenio. Il libro, inoltre, ha vinto il “Premio Peonia” della Città di Palma Campania e il “Premio Approdi d’autore”.

Insomma, dinanzi a questo «caso letterario» l’occhio di Pupia.Tv non è rimasto indifferente, e per questo abbiamo rivolto alcune domande all’autore, mossi principalmente da una curiosità: cosa c’è nella mente di un uomo, nella mente di un superficiale?

Nella mente di un superficiale. Un titolo che già ci proietta nella parte più misconosciuta di un uomo: la sua mente. Perché questa scelta? «Perché la parte preponderante del romanzo vede protagonista un uomo, ritenuto uno “sciupafemmine” e, come tale, considerato un “superficiale”. Di fronte a questo giudizio, sicuramente frettoloso ma non per questo necessariamente sbagliato, lui decide di confessare ogni pensiero che affolla la sua mente e le azioni, non sempre edificanti, che compie durante la propria giornata, da avvocato di dubbio successo». – continua sotto –

Il protagonista del libro, l’avvocato De Chirico, lo conosciamo attraverso la sua mente o attraverso il suo cuore? Dove «entriamo» veramente? «Credo che la mente sia, per tutti noi, compreso l’avvocato De Chirico, la voce del cuore, quindi penetrare la sua mente significa anche conoscerne il cuore. Non so quali profondità raggiunga nelle sue analisi. Ognuno di noi ha i propri limiti, per me una profondità di due metri potrebbe essere da abissi, altri, invece, sanno stare in apnea tanto da raggiungere facilmente profondità oceaniche. Spetterà al lettore giudicare».

Un libro in parte narrato in prima persona, in forma diaristica. Perché questa scelta? «La scelta, sotto l’aspetto narrativo, scaturisce sia da un’esigenza estetica che da un’esigenza sostanziale. Ho scelto per il protagonista l’io narrante, perché, in prima persona, è più facile ricorrere ad espressioni più dirette, se si vuole, più irriguardose. Specchio del tipo di vita che conduce l’avvocato De Chirico. Ad ogni modo, da lettore, troverei strano che un diario o, comunque, una mente che esprime il proprio pensiero usi la terza persona. Mentre la voce narrante, ritengo, sia e, comunque, sia stata idonea a raccontare di vita meno impulsiva, più lineare».

Il protagonista. Che uomo è? E perché l’accezione di superficiale? Cosa intendi? E se la sua fosse solo, in termini pseudo calviniani, leggerezza? (cfr. Italo Calvino, nel suo libro “Lezioni Americane”, scrive: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”).  «Il protagonista sfida (enucleandoli in categorie poco edificanti) i possibili lettori affinché lo giudichino sulla scorta di elementi concreti, non solo, come è prassi ricorrente nella nostra società, forse, ancor di più che in altri momenti della storia dell’Umanità. Si giudica sulla scorta dei “sentito dire” che più si adattano a personali motivi di livore, di antipatia o semplicemente di invidia. Naturalmente, l’avvocato De Chirco, avendo forti dubbi sulla propria condotta di vita, non sa quale sarà il giudizio finale. Bisogna aggiungere che, oltre a confessarsi, non perde occasione di denunciare il conformismo, la falsità, il ricorso alle apparenze a scapito della sostanza delle cose, mal costume da sempre, ma maggiormente caratterizzante le società prive di elementi indicizzanti. A meno che non si abbia piena e cieca fiducia nel genere umano. Non è il mio caso, l’uomo, ancora oggi (forse, sempre), ha bisogno di elementi indicizzanti su cui trovare appoggio nel proprio percorso di vita. Demandare alla coscienza di ciascuno di noi le regole di comportamento (rectius: rispetto dell’altro) credo sia una velleità spero, naturalmente, di sbagliarmi». – continua sotto –

A proposito di Calvino e la sua “americana leggerezza”. La prosa è appunto limpida, dal linguaggio semplice, eppure con espressioni concrete, crude. Questa scelta, come mi pare del resto anche quella del titolo, è antitetica al contenuto o è quello che potremmo definire il tuo stile? «Non saprei dire se è il mio stile da scrittore, però è senz’altro lo stile che preferisco da lettore. Non a caso, le mie letture prevalenti, almeno nell’ultimo decennio, riguardano la letteratura moderna straniera, dove l’io narrante, il romanzo psicologico, il confronto delle coscienze in maniera diretta ed esplicita, non avviene attraverso il personaggio di una stori (tipico, invece, della tradizione italiana, dal Manzoni alla Ferrante) è di gran lunga più utilizzato».

Beatrice. Un nome simbolico che, con Dante, significa letteralmente “colei che dà beatitudine”. Come potremmo definire questo personaggio che è descritto? E’ forse solo nelle sue mani la beatitudine del protagonista? «Ho una figlia di nome Federica, la mia primogenita, ma se ci avessi pensato avrei preferito chiamarla Beatrice. Da qui la scelta del nome. Il dolce stil novo non gode troppo dei miei favori. “Nella mente di un superficiale” aspira ad essere un libro di verità su uno spaccato della nostra società e, al di là dei miei personali gusti, credo che sia irriverente la benché minima ispirazione dalla figura della Beatrice dantesca, tantomeno del Paradiso della “Comedia”».

L’altro figlio, Massimo. Come possiamo contestualizzare la sua figura? «Rivelerei troppo del racconto, pardon, meglio utilizzare, per non apparire troppo “boomer”, il verbo spoilerare. Ad ogni modo, è consequenziale alla vicenda».

Appello ai lettori. Nel libro, spesso, il protagonista fa riferimento a coloro che leggeranno le sue memorie e talvolta anela, credendoli improbabili, i lettori stessi: “perché fosse lei a giudicare il papà e non quel fantomatico insieme di lettori che mai avrebbe avuto”. Perché questa scelta? Da che bisogno nasce? «Non vorrei ripetermi, ma anche l’esperienza da avvocato matrimonialista mi spinge a temere i condizionamenti che i figli subiscono dalle separazioni. In una società moderna, la fine di un rapporto affettivo dovrebbe essere vissuta nella maniera più tranquilla possibile da parte dei figli. Invece, il trauma vero sono loro a subirlo, per incapacità dei genitori di accettare la rottura dell’unione e dall’incapacità di questa società di indirizzare gli individui verso una visione corretta della realtà che vada oltre i propri interessi, il proprio sentire. Si travalica ogni regola, addirittura si arriva a far del male ai figli pur di inculcare loro l’immagine che si ha del partner, pur sapendo il danno che comporta una figura genitoriale sminuita nel suo ruolo».

Amore, sesso, paternità. Quanto questi tre temi si intrecciano tra di loro e come si influenzano? «L’anima non è fatta a compartimenti stagni. Ogni elemento influenza l’altro. Va fatta eccezione per la paternità che, per molti, non credo per tutti, è il valore assoluto. Questo, forse, vale anche per il protagonista del libro, al di là degli errori che commette o degli errori che gli affibbiano. Padre, madre, innanzitutto, tutto il resto riguarda l’uomo. Ad ogni modo, le esperienze in un campo non possono che influenzare gli altri. La forza e le capacità dell’individuo fanno in modo che il grado di valori venga considerato secondo la corretta gerarchia, la corretta cultura».

La vita “comune”, la “routine”. E’ dalla prima metà del Novecento letterario che al centro dei romanzi, spesso, vi si trova come protagonista la vita “inutile”, la vita “comune”. Nel tuo romanzo mi pare che anche la routine del protagonista sia un elemento fondamentale, quasi motore di riflessioni; una sorta di monotonia che spinge il protagonista, nel movimento continuo e automatico delle sue azioni, a riflettere su queste stesse e sulle pieghe più nascoste. Approfondiamo questo aspetto. «Non sempre la routine è qualcosa di negativo. Diciamo che la routine allunga il tempo della vita. Il protagonista del romanzo ne ha bisogno anche per allungare la propria di vita che, spesso, brucia in avventure dall’improbabile valore. Ad ogni modo, si ricorda tutti l’aneddoto sulla puntualità di Kant, al cui passaggio i negozianti regolavano l’orario dei propri orologi. Nel caso del “Superficiale”, serve da un punto di vista scenico ad acuire immagini di solitudine come solo i piccoli gesti sanno mettere in evidenza».

Cosa c’è nella mente di un superficiale? Viviamo nell’era in cui la superficialità talvolta regna sovrana; ma viviamo anche in una società superficiale che non sa vedere oltre la siepe corporea dell’uomo. La tua è una provocazione? Un invito ad andare oltre le apparenze? «Un’esigenza che esprimo attraverso le provocazioni. Sia ben chiaro che, nel caso del romanzo, le provocazioni non sono artatamente costruite, ma si limitano ad essere racconto della realtà. Nulla provoca di più delle verità svelate, senza fittizi abbellimenti. Ed è quello che fa l’avvocato De Chirico. Non nasconde nulla di sé, non nasconde nulla di coloro che si interfacciano con lui per un istante o per giorni».

Vita e scrittura. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Quanto la vita influenza la scrittura e quanto la scrittura influenza la tua vita? «Non credo che sia importante sapere se trattasi di un romanzo autobiografico, piuttosto importante capire se si raccontano frottole o verità. Utilizzo uno stile che possiamo definire “no fiction”, ma lasciamo che il lettore non colga il pettegolezzo, come inevitabilmente succederebbe se parlassimo di libro autobiografico, quanto, piuttosto, il messaggio che contiene. E poi, non credo nelle biografie, né, tantomeno, nelle autobiografie, c’è il forte rischio che il biografo non capisca e l’autobiografo non si conosca affatto».

Metaromanzo: un romanzo che raccoglie cocci di vita e pagine da destinare. Cosa ci dici a proposito? «Più che cocci, credo raccolga vita. Certo, qualcuno può storcere il naso; la vita che ha scelto di condurre, che ha scelto nella piena consapevolezza dei fallimenti, cui poteva andare incontro, lo porta ad essere vittima di se stesso, giammai un “perdente” come qualcuno lo ha definito. Credo, infatti, che lui vinca sulla vita, che ha necessità di vedere e riesce a vedere per com’è, senza nascondersi nulla. Dovrebbe essere esigenza di tutti vivere nella piena consapevolezza di sé. L’avvocato De Chirico si preferisce, nonostante le difficoltà, a tutti i numerosissimi finti che albergano questa terra in maniera più comoda. Più che essere viventi, vede come fantasmi in questo mondo. Credere di essere o non vedere di essere così come si è, per lui è una vita sprecata».

Cosa ti aspetti da questo libro? E cosa ha significato per te prendere parte a programmi televisivi importanti? «Ottima pubblicità per il libro, per me niente di più, niente di meno. Forse, una maggiore consapevolezza ma solamente minima consapevolezza di avere qualcosa da dire, e, sottolineo, forse di non far parte della schiera di scrittori che scrivono per parlare di sé, per mettere in mostra il proprio ego, che nulla aveva prima del libro e nulla dopo, se non la prova della propria insipienza culturale. Purtroppo, in Italia, sono pochissimi i lettori, tantissimi, invece gli scrittori. Causa ed effetto della situazione letteraria nel nostro bel paese. Ad ogni modo, sono sincero, non sono ancora certo di non far parte di questa insipiente e maggioritaria parte di scrittori che si assolve e si qualifica “letterata” con troppa generosità. La differenza certa è che mi sento e mi presento come oramai da sempre avvocato. Per quanto riguarda il romanzo, voleva essere di conforto per chi fa scelte anticonformiste e di stimolo a guardare in faccia la realtà».

Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? «Scrivo molte poesie, sono impegnato come redattore del “Proscenio”, rivista del Teatro Pubblico di Napoli, presento ogni tanto qualche libro altrui, ma, soprattutto, lo ribadisco, redigo atti processuali. Posso solo affermare che incomincia a balenare un’idea di romanzo, ma, al momento, è una vaga ed ancora inafferrabile idea».

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