Aversa (Caserta) – di Michele Gervasio – È silenzioso il vento che passa attraverso le gambe e si fa passo, anche quando i passi diventano tanti e la strada è ancora lunga, i passi passano come tutto e come ogni cosa, i passi si affiancano alle cose, ai luoghi, al tempo, capita che si affianchino alla Bellezza o a quella che sembra essere tale. – continua sotto –
I passi indossano scarpe, invecchiando con esse, a furia di farsi strada, sporcandosi anche con l’acqua della via e con il tempo che vola via. I passi si avvicinano alla Bellezza e a volte sembrano ignorarla, eppure qualche folle dice che la Bellezza è ovunque, basta fermare i passi. Ma come, vien di ribattere alla follia, occorre pur raggiungerla la Bellezza, anche attraverso i passi. O forse quella che Bellezza sembra, è tale solo per qualcuno e per altri molto meno.
Ho imbattuto i miei passi nel centro storico di un piccolo paese che chiamano “Aversa”, nel centro del centro tra vecchie viuzze e sanpietrini scomposti ho appoggiato i miei passi su mura antiche di tufo dal colore dell’oro. Mi sono fermato e i miei passi, roteando su sé stessi, si sono fatti increduli davanti ad impronte di quel che mi è sembrata essere rara Bellezza. Tra alberelli di arance e mandarini, in piazzetta Lucarelli, ho trovato un piccolo tempio dedicato ad un santo, che scopro essere il più antichi dei templi dedicati a quel santo, la chiesa di Sant’Antonio al seggio.
Edificata nei primi anni del tredicesimo secolo, fu offerta all’ordine francescano dei Minori Conventuali. Inizialmente di stile gotico, come ancora traspare nella facciata, nella zona presbiteriale e nella trifora della parete absidale, a partire dagli ultimi anni del ‘500, assunse il definitivo aspetto prevalentemente rinascimentale e barocco. – continua sotto –
Ritrovatomi senza sapere come seduto su una delle panchine e scopertomi solo, con il pavimento del marmo antistante la chiesa a riflettere raggi di un sole cocente, ho potuto finalmente chiudere gli occhi, immaginando il tempo andato, le numerose generazioni trascorse e quelle mura di tufo lì, ferme da sempre e pietose di sé stesse, impotenti nella loro Bellezza a guardare gli innumerevoli passi indifferenti ed irrilevanti a non tentare nemmeno più una qualche forma di disturbo, di umana attenzione, di miserabile interesse.
Poche ma impetuose domande hanno cominciato ad affollarmi il cervello, tutte sullo spazio, lasciato spaventosamente sporco in un tempo lungo e perlopiù pulito. Come riesce il coraggio ad insinuarsi, facendosi vergogna dinanzi agli occhi, vergogna per lo sporco dei gradoni, per il vomito degli ubriachi, per il piscio dei disumani? Riesce ancora a definirsi “coraggio” quel che è soltanto “indifferenza”? Ha senso dunque parlare di tutto ciò quando l’inconsapevolezza di ciò che si è e di ciò che si fa non può che rimanere tale, proprio perché tale è la sua natura?
Dopo pochi minuti e sento improvvisamente scuotermi le spalle, costretto così a riaprire gli occhi. Un uomo, manchevole di qualche dente, mi sorride stranito, credendomi dormiente. Senza pensarci più di tanto, gli dico con fermezza che i miei passi si sono fermati a guardare quella che, senza motivi apparenti, ho creduto essere Bellezza, ma lui, scoppiando in fragorose risate, si è allontanato velocemente. Resto in questo stato, sempre più convinto che quel che è Bellezza per me, non è tale per altri; sempre più persuaso che più che giudicare, occorrerebbe agire, armarsi di scopa e paletta, di sapone e olio di gomito, perché l’indifferenza tale resterà, aspettando solo di ricevere inutili attenzioni. – continua sotto –
Ma certo è che non sarebbe la stessa cosa se templi come questo di Sant’Antonio al Seggio sparissero per sempre o peggio non fossero mai esistiti, non sarebbe la stessa cosa se non ci si sentisse indignati per lo spettacolo, certo passeggero ma cocente, che si è costretti a vivere. E troppo facile sarebbe attribuire la colpa di seppur numerosa individualità a categorie intere; troppo semplice, quindi, sarebbe accusare la politica e gli esercizi commerciali presenti tutt’attorno, perlopiù locali del sabato sera, e addossargli colpe non proprie. È più facile distruggere che mantenere, è più semplice sporcare che pulire, è più comodo il male rispetto al bene.
Domande ancora e ancora domande, senza chiare forme di risposta, ma certo pienezza, pienezza di passi compiuti, mai fermi, ancora in movimento, laddove la strada è ancora lunga e la Bellezza ancora tanta da scoprire. Ho lasciato la piazza dopo poco senza voltarmi, dirigendomi verso il Duomo, ma ho sentito che in qualche modo le mura stavano sorridendo.