Libertà di stampa sotto attacco: intervista a Stefania Battistini al Premio Daphne Caruana Galizia

di Redazione

di Alessandra Tommasino, Tina Cioffo e Antonio Taglialatela – Stefania Battistini, inviata del Tg1, tra i primi giornalisti a raccontare gli orrori del conflitto russo-ucraino, nei territori sotto assedio. Non solo le storie, i drammi delle persone colpite ma anche le dinamiche e i nodi del conflitto. Sempre in prima linea anche quando si è trattato di entrare in territorio russo al seguito dell’esercito ucraino, durante l’incursione a Kursk, su di lei e sul suo operatore Simone Traini pendono un ordine d’arresto e la richiesta di estradizione da parte del governo di Putin per presunto “attraversamento illegale del confine” dall’Ucraina.

L’abbiamo incontrata a Strasburgo (in alto la videointervista) dove ha presenziato al Premio Daphne Caruana Galizia sulla libertà di stampa, ideato e promosso dalla vicepresidente dell’Europarlamento, Pina Picierno.

Stefania, semplicemente per aver fatto il tuo lavoro, oggi ti ritrovi a essere a essere un bersaglio della Russia.  «Sì, il mandato di arresto nei confronti miei e di Simone Traini e la richiesta di estradizione sono legati a quella che era una semplice cronaca militare. Verso metà agosto, a due settimane dalla prima incursione degli ucraini nei territori decidiamo di seguirli perché in quel momento c’erano differenti versioni su quella situazione sul terreno. C’erano i media russi e anche famosi “milblogger” russi che dicevano che in realtà la situazione era sotto controllo, non era vero che le truppe di Kadyrov si erano arrese, a differenza dei video che invece pubblicavano i canali Telegram ucraini. Quindi, noi abbiamo ritenuto innanzitutto un dovere essere lì per capire quale delle due versioni fosse vera. E soprattutto era anche una notizia storica perché la Russia, potenza nucleare, non veniva invasa dalla Seconda guerra mondiale, questo nonostante fosse in realtà un’incursione, non un’invasione, perché sono entrati per poco più di una quindicina di chilometri, però era sicuramente simbolico e poteva anche rappresentare un punto di svolta della guerra».

Tu ha seguito le truppe ucraine per 15 chilometri, dal confine ucraino fino all’interno del territorio russo. In quello che può sembrare un piccolo tratto di strada quanto tempo ci avete messo per attraversarlo e cosa accadeva nel frattempo? «Ci abbiamo messo quasi due ore perché noi siamo entrati da una via laterale, per i campi, quindi tutto in uno sterrato, cercando di avere delle coperture perché comunque c’era la possibilità che ci fossero droni russi che sganciassero delle granate, quindi sarebbe stato impossibile scappare. Poi abbiamo cambiato due auto. Il primo tratto l’abbiamo fatto sempre “embedded” con i militari ma con un’auto normale. Siamo arrivati, poi, alle trincee russe prese dagli ucraini e siamo saliti su un blindato. Da lì abbiamo raggiunto la città di Sudzha che gli ucraini avevano sotto controllo, un’importante città strategica perché è hub del gas per l’Europa, ed effettivamente loro avevano il controllo di quella città nonostante l’incursione dei droni».

Qual è lo scenario dinanzi al quale tu e gli altri colleghi vi siete ritrovati, vi siete imbattuti in immagini di devastazione e morte? «Le strade per arrivare lì, e anche le case, non avevano subito una grandissima distruzione, che pure avevamo documentato all’inizio con dei pezzi fatti da desk, perché oggettivamente erano dieci giorni di guerra e non aveva prodotto molta distruzione. C’erano stati sei morti nei giorni precedenti, invece il centro della città, cioè i Palazzi del Potere, il Comune, erano completamente distrutti. Abbiamo incontrato una sessantina di civili russi vicino a un rifugio nei sotterranei di una scuola, ci hanno raccontato che i militari russi gli avevano chiesto di radunarsi lì e di proteggersi lì, e che poi sarebbero tornati a liberarli. In realtà, non ce l’hanno più fatta a tornare a liberarli ed erano lì sotto il controllo ucraino. Quello che fa un giornalista quando vede dei civili è chiedere come li trattano».

Dalle loro risposte, che cosa emerso? Che idea ti sei fatta delle loro condizioni? «Erano abbastanza tranquilli, scioccati, perché non si sarebbero mai immaginati di trovarsi in questa situazione, comunque avevano lasciato la loro casa, un po’ storditi, spaesati, però in salute. Gli abbiamo chiesto se gli davano da mangiare, da bere, che cosa volessero fare, se andare verso la Russia, se riparare in Ucraina. Domande che anche la Croce Rossa fa quando entra nelle carceri, ad esempio. È chiaro che non sono liberi di dirti tutto perché ovviamente sono sotto il controllo ucraino, ma come essere umano mi rendo conto se una donna, una ragazzina, come quella con cui ho parlato, è in stato di choc, ha paura, è sotto costruzione oppure no, e non avrei mai lasciato una ragazzina in una situazione di costrizione».

Tu hai documentato quel contesto ed è andato in onda il servizio, ripreso dagli attivisti ucraini ma anche dai blogger russi, da alcuni dei quali sono partite le minacce di morte. «Sì, gli ucraini hanno raccontato e condiviso il pezzo come se fosse una bandiera di vittoria aver portato dei giornalisti occidentali dentro la loro prima incursione. E da lì sono rimbalzati sui canali Telegram russi e alcuni “milblogger” russi hanno iniziato a incitare alla violenza, a dire di prenderci di mira come target militare, di ucciderci, quando sappiamo che la Convenzione di Ginevra protegge i giornalisti e che è un crimine di guerra uccidere un giornalista, anche se ne abbiamo visti tanti morire in questa aggressione. E hanno iniziato a chiedere sia di ucciderci sul campo sia di iniziare una causa contro di noi, a chiederlo all’Fsb, l’ex Kgb, cosa che poi l’Fsb ha fatto effettivamente, invocando tramite un tribunale di Kursk il nostro arresto e l’estradizione per attraversamento illegale dei confini. Uno stato che ha invaso uno stato sovrano due anni e mezzo fa accusa i giornalisti di aver attraversato illegalmente i confini. Una situazione surreale per certi versi».

Sei giornalista da tanto tempo, impegnata nei teatri di guerra. Essere ora destinataria addirittura di un mandato di arresto, con la Russia che chiede all’Italia la tua estradizione, cosa provoca in te? «Mi sembra un’altra arma di questa guerra, nel senso che il campo dell’informazione è un ennesimo campo di battaglia, come quello terrestre, navale, aereo. Un’arma per contingentare i giornalisti, per far capire loro di non entrare in Russia perché gli creeranno dei problemi, quando noi sappiamo benissimo che il corrispondente di guerra da sempre è nelle zone di combattimento, sia che esse siano sotto il controllo di uno stato o meno, perché tu segui le truppe dove si muovono, e quel territorio non era più sotto controllo russo. Poi possiamo giocare sui termini, nel senso che i russi non definiscono questa una guerra, non definiscono la loro un’aggressione, un’invasione, e definiscono l’incursione ucraina “terroristica”. Però io mi devo basare su quello che dice il diritto internazionale, cioè l’Assemblea delle Nazioni Unite che dalla prima risoluzione, già a febbraio, dopo pochi giorni di guerra, aveva affermato che quella della Russia era un’aggressione, chiedendo più volte di ritirare le truppe. Quindi, la vivo come ho vissuto altre cose, come ho vissuto i droni sopra la testa, come ho vissuto le notti negli shelter perché bombardavano fuori, come quando ho dovuto ascoltare i racconti degli stupri delle donne che sono sopravvissute, a cui hanno ammazzato i mariti, dei familiari, delle persone torturate. Lo vivo nello stesso modo, con una certa lucidità, sapendo che sarà una cosa importante anche per gli altri, perché poi, al di là dalla mia storia personale, è proprio il principio della libertà di stampa e della libertà di azione dei giornalisti che viene messa in discussione. Lorenzo Cremonesi, che dopo di me, a distanza di un mese, ha voluto entrare di nuovo a Sudzha, in territorio russo, per dire a Putin che non sarà lui a decidere quali sono le regole del giornalismo di guerra, ritengo abbia compiuto un atto generoso per tutti noi giornalisti».

Ti ritrovi a vivere sotto scorta, una vita totalmente cambiata. Oggi qual è il tuo rapporto con la paura? E, a questo proposito, il sostegno delle istituzioni ti stia aiutando a sentirti più protetta? «Il mio rapporto con la paura, dopo due anni e mezzo di guerra in Ucraina, è molto cambiato. Se può succedere qualcosa la prendi come un’eventualità ma la battaglia e i valori per cui si combatte sono più importanti. Devo dire che lo Stato italiano ha fatto di tutto per farmi sentire protetta, perché poi addirittura la scorta è venuta con me qui a Strasburgo, io non credevo nemmeno che passasse il confine. E poi la Rai, la mia azienda, attraverso gli affari legali, mi è stata vicina dal primo momento, con una grande preoccupazione all’inizio per la mia sicurezza personale e in seguito proprio per la gestione di questa situazione. Ora la sfida è davvero quella di poter gestire questa situazione e consentirmi di tornare al lavoro sul campo».

Quindi non ti penti di aver fatto la scelta di lasciare lo studio televisivo del Tg Lombardia per andare in un teatro di guerra? «Tutto nel mio percorso ha avuto un senso. Con Tg Lombardia, facendo la cronaca nera, ho imparato a stare in mezzo alla strada e non è mai cambiato questo atteggiamento di cronista. L’unica cosa che soffro in questa fase è che non mi possa muovere. Se mi pento di aver attraversato quei confini? No. Torno indietro, ci penso, ci ripenso e dico: lo dovevo fare. Mi sarei vergognata di me stessa se non avessi assolto questo dovere».

Qual è il prossimo scenario di guerra internazionale o anche fatti di cronaca nazionale che vorresti raccontare? «Io sono inviata dalla redazione Esteri, per cui nel mio ruolo c’è proprio l’idea di essere inviata all’estero. Chiaramente questa situazione di sospensione sta limitando le cose, però il desiderio che ha un cronista, un inviato di esteri, è quello appunto di poter tornare a documentare. Spero che possa essere possibile, perché sennò veramente sarebbero degli arresti domiciliari anticipati». IN ALTO IL VIDEO

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