di Mattia Maria Menale – Aversa (Caserta). Ci sono giorni in cui un campo da calcio non è un campo. È un’epifania. Un varco tra ciò che si vede e ciò che vale. Martedì 15 aprile, ad Aversa, il vento ha portato il profumo della Pasqua non nei templi, ma sul prato della Real Normanna. Un allenamento, in apparenza. In realtà, un rito. Un’offerta. Un gesto che ha saputo dire, senza alzare la voce: noi siamo qui, per chi non può esserlo. La squadra granata, in quel pomeriggio di primavera, non si preparava solo a giocare. Si stava preparando a donare. E già questa parola – donare – basterebbe a raccontare la verità più alta di ciò che è accaduto. Ma c’è qualcosa di più profondo: è la scelta di farlo dopo un allenamento, nel momento più quotidiano, più invisibile, più vero. Non quando le luci sono accese, ma quando l’anima è nuda.
“Cuore e Gol: Pasqua in campo” è il nome dell’iniziativa. Un nome semplice, quasi ingenuo. Ma dentro quelle parole si cela una rivoluzione silenziosa: trasformare lo sport in linguaggio d’amore, un pallone in simbolo di speranza, l’allenamento in atto educativo. Al termine della sessione, i calciatori hanno donato uova di Pasqua all’Unicef. Non erano regali: erano messaggi. Non cioccolato: ma carezze. Piccoli scrigni che contenevano molto più del dolce. Contenevano attenzione. Scelta. Cuore. E oggi serve coraggio per scegliere il cuore. In un tempo in cui il mondo pare volerci educare alla durezza, alla corsa, alla performance, questi ragazzi hanno scelto la sosta, l’ascolto, la gratuità. Hanno ricordato a tutti che il calcio può essere poesia, se si gioca con l’anima. Che il pallone può diventare bussola, se lo si orienta verso chi ha bisogno. Che allenarsi alla solidarietà è forse l’unico modo per imparare a vincere davvero.
E in questo scenario incantato, non potevano mancare i veri destinatari del gesto: i bambini, piccoli spettatori che, all’improvviso, sono diventati protagonisti. Hanno riso, giocato, rincorso palloni e sogni con la stessa naturalezza con cui si rincorre la vita. Con le mani sporche di cioccolato e gli occhi pieni di stupore, hanno trasformato quel campo in un parco giochi del cuore. Non solo hanno ricevuto, ma hanno restituito – a modo loro – ciò che conta davvero: la gioia che non mente, il sorriso che non mente, la gratitudine che non sa parlare ma si fa abbraccio. E in mezzo a loro, quei calciatori – giganti in scarpe da gioco – sono diventati bambini anche loro. Perché la vera forza sta nel piegarsi all’altezza di un sogno piccolo, pur di sollevarlo.
In quel pomeriggio, al fianco della squadra, c’erano i volti giovani e luminosi di Younicef e dell’associazione Wake Up Uagliù. Non semplici partecipanti, ma protagonisti silenziosi di un atto rivoluzionario: restituire al calcio la sua anima pedagogica, la sua vocazione civile, il suo potere trasformativo. Non erano lì per guardare, ma per essere. E lo sono stati con l’intensità di chi sa che ogni gesto, se fatto col cuore, può cambiare qualcosa – anche se non si vede.
“Oggi lo sport ha fatto un gol nel cuore dei bambini”, ha dichiarato Emilia Narciso, presidente regionale dell’Unicef, con una lucidità che disarma. “Ciò che si semina lì, resta per sempre” E forse è proprio questa la verità più limpida: che ogni gesto di bene è un seme, e ogni bambino è terra. E che ciò che si fa col cuore non muore, ma germoglia in silenzio, come fa la primavera. Il merito di tutto questo è anche di chi ha creduto nel valore del gesto ancor prima del gesto stesso: Enzo Del Villano, presidente della Real Normanna, e i suo figlio Luigi e Giuseppe, che con discrezione e determinazione hanno reso possibile questo piccolo miracolo sportivo. La loro è stata una presenza che non cercava riflettori, ma che li merita tutti. Perché la vera leadership, oggi più che mai, è saper guidare con l’esempio, senza proclami, scegliendo il bene come unica strategia. E poi c’è Wake Up Uagliù: nome che sembra un richiamo, un imperativo gentile, un invito a svegliarsi non solo dal sonno, ma dal torpore dell’indifferenza. Questi ragazzi non alzano la voce, ma alzano il livello. Non chiedono, ma costruiscono. Non si accontentano del possibile, ma inseguono il necessario. Senza di loro – come ha ricordato ancora Emilia Narciso – “sarebbe stato difficile correre così forte e segnare”.
Ma la bellezza, in questa storia, non sta solo nel gesto. Sta nel contesto. Sta nel fatto che sia accaduto dopo un allenamento. Quando i muscoli sono stanchi, e le difese abbassate. Quando nessuno se lo aspetta. È lì che l’anima si fa verità. E allora sì, possiamo dirlo: la Real Normanna non ha semplicemente donato. Si è donata. E questo cambia tutto. Perché in un mondo che misura tutto – dal tempo alle emozioni – scegliere la gratuità è un atto sovversivo. Donare quando nessuno ti guarda è un atto d’amore. E fare del calcio un luogo di relazione e non di esibizione è forse la forma più alta di vittoria.
Il 15 aprile, ad Aversa, non si è vinta una partita. Si è vinto qualcosa di più raro: un senso. Un senso nuovo dello sport, della comunità, della giovinezza. Un senso che profuma di Pasqua, di rinascita, di possibilità. Che ci ricorda che la vera forza non è dominare l’altro, ma prendersene cura. Che il gol più importante non si segna con i piedi, ma con la coscienza. E allora, a chi leggerà queste righe, non resta che una domanda: Se un semplice allenamento può generare tutto questo, cosa potrebbe accadere se ogni giorno scegliessimo di vivere con la stessa intensità, la stessa cura, lo stesso cuore? Forse basterebbe questo per cambiare il mondo. O almeno, per cominciare. Con un pallone. Con un sorriso. Con un uovo. Con un gesto che non fa notizia, ma fa storia. Perché le partite più importanti non si giocano in campo, ma nella coscienza. E questa, la Real Normanna, l’ha vinta a mani aperte.