Dazi Usa, legame tra iPhone e Cina: ecco perché il divorzio è (quasi) impossibile

di Redazione

Nonostante le tensioni commerciali e le guerre di dazi, il cuore produttivo dell’iPhone continua a battere in Cina. Oltre l’80% dei dispositivi Apple destinati al mercato statunitense nasce infatti in fabbriche cinesi. Un dato rivelato da Counterpoint Research, che racconta molto più di una semplice statistica: fotografa un legame industriale profondo, strategico, e al momento insostituibile.

È anche per questo che, di fronte all’ipotesi di dazi fino al 125% imposti sulle importazioni cinesi, l’amministrazione Trump ha fatto un clamoroso dietrofront, escludendo smartphone, computer e dispositivi elettronici dall’ondata protezionistica. Una scelta che, secondo Dan Ives, responsabile della ricerca tecnologica per Wedbush Securities, è stata obbligata: “I Ceo delle big tech hanno fatto sentire la loro voce, e la Casa Bianca non ha potuto ignorarla. Sarebbe stato un Armageddon”, ha dichiarato a Cnbc.

Cambiare rotta non è così semplice. Le catene di fornitura che legano le aziende americane alla Cina sono complesse, radicate, ottimizzate negli anni. A sostenerlo è Andrea Rangone, docente di Digital Business Innovation al Politecnico di Milano e co-fondatore degli Osservatori Digital Innovation: “Nel breve termine, è praticamente impossibile per i produttori americani cambiare filiere senza affrontare costi altissimi”.

Una riconversione industriale, pur auspicabile nel medio-lungo periodo, richiederebbe tempo, investimenti massicci e una riorganizzazione logistica globale. Le alternative esistono – India e Vietnam su tutte – ma non garantiscono ancora la stessa efficienza e scala produttiva della Cina.

Apple stessa ha avviato da anni una strategia di diversificazione delle sedi produttive, tentando di ridurre la sua dipendenza da Pechino. Oggi, circa il 20% degli iPhone viene prodotto in India, un dato in crescita ma ancora lontano dal colmare il peso cinese. I colossi del settore, Apple in primis, si stanno muovendo con cautela per ampliare i propri orizzonti produttivi senza compromettere l’efficienza industriale e la qualità che il mercato richiede.

I dazi, in questo scenario, rischiano di agire come un detonatore. Rangone li definisce un possibile “cigno nero”, in grado di stravolgere gli equilibri economici globali: “Diversamente dalla pandemia, che è stata un evento esogeno e imprevedibile, qui si tratta di una scelta politica, e come tale reversibile. Nei prossimi mesi – sottolinea l’esperto – ci si può attendere cambiamenti significativi e persino passi indietro”.

Alla prova dei fatti, separare i destini di Silicon Valley e manifattura cinese si rivela un’impresa tutt’altro che semplice. Se da un lato c’è la volontà di emancipazione tecnologica e indipendenza strategica, dall’altro ci sono numeri, infrastrutture e logiche di mercato che tengono saldamente insieme le due sponde del Pacifico. E in questo equilibrio precario, l’iPhone resta il simbolo perfetto di una globalizzazione che, nonostante tutto, continua a funzionare.

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