AVERSA. Questa storia la voglio iniziare a raccontare, proprio come se fosse una favola. Cera una volta, tanto tempo fa (per la verità mi vien da dire non tantissimo tempo fa), una strada di Aversa che pulsava di vita.
Era, anzi è via Bersaglieri, detta anche Aret a chiazz de pene. Tra la fine degli anni 60 e fine anni 80, in questa stradina caratteristica del centro storico di Aversa e a ridosso con Ncop o Lummetone (via Orabona), dove bastava passeggiare e ogni cinque metri bisognava fermarsi e salutare con simpatia e calore i tanti calzolai. e Scarpar, che, lungo la stradina, avevano davanti ai loro bassi i banchi di lavoro. Ma sarebbe più corretto dire i famosi bancarielli, con tanto di forme di scarpe ai loro piedi, tomaie nellacqua ad ammorbidire prima di montarle sulle forme, lattine di bostik, puntine ma meglio conosciute come semmenzelle. Sembrava di attraversare una sorta di catena di montaggio a cielo aperto. Una scena, questa, che si poteva bene incastonare in un presepe vivente.
Man mano che si attraversava la via si vedeva il bancariello di Capaianca che stava mettendo le tomaie sulle forme, poi quello del Solece che metteva la suole e i tacchi, poi alla fine si arrivava al bancariello di Aitane (Gaetano) che stava passando la cera sulle scarpe finite e le lucidava. Poi quello del Cavaliere che, con spago e punte di setola e pece, cuciva le pattine sopra le tomaie ogni punto con precisione estrema. E poi, Rafele o Baffone che, con i suoi 13 figli, bastava a riempire unintera strada, da ricordare anche Barbarossa, Ajtane e Perapera Chille e Fatinella, MastAniello o Fresatore, Pascale e Fetacchiella e tanti altri ancora che lavoravano in altri rioni di Aversa.
Tutti dediti a lavorare le scarpe. Questi nomignoli, questi personaggi e qui ne citiamo solo alcuni per questioni di spazio, nellambiente erano considerati veri maestri artigiani delle scarpe, quelle vere, fatte con amore, sacrifico e tanto impegno. Ma va precisato che ne erano molti di più questi grandi lavoratori, in rappresentanza di una categoria che è scomparsa, ma che resta indelebile nella memoria di chi ha vissuto quellepoca.
Dalle cinque del mattino alle 22 si mettevano dietro al bancariello che affacciava sulla strada e con loro tutti i componenti delle loro famiglie, intorno, fuori e dentro i bassi. La giornata la svolgevano tutta lì. Anche i figli partecipavano e contribuivano dopo la scuola, portando le scarpe alla Fresa, alle botteghe di Bruno o fresator o di Federico Shember. Anche questi perni essenziali e vitali per tanti artigiani che, non avendone le possibilità e le attrezzature, mandavano le loro scarpe da questi ultimi per il completamento. Le scarpe venivano poste a due dozzine alla volta nei Carruoccioli di legno. Mezzo di trasporto, questo, realizzato con quattro ruote di bicicletta e quattro pannelli di legno spinto a mano in un viaggio fatto di tanti incroci tra un carruocciolo e un altro. Questo creava anche qualche scambio di battute a chi faceva più scarpe da portare alla Fresa. Difatti, più viaggi si facevano e maggiori erano gli introiti. Oggi tutto questo è sparito. Rimane una strada vuota, con quei bassi chiusi.
A testimonianza di un tempo che mai più tornerà. Tante famiglie che lavoravano gomito a gomito, che su quei bancarielli facevano scorrere giornate intere, quando era ora di pranzo o ci arrangiava con a mbost, un pezzo di pane con in mezzo di tutto e di più, pppure con past e patan o past e fasul, con un chilo di pane sotto: na vera prelibatezza! Il bancariello veniva coperto con un mesale e si apparecchiava la tavola. In questi momenti si faceva anche a gara a scambiarsi la mbosta, magari a qualcuno non andava pane e sasiccie e la scambiava con il pane e pruvulone del collega del bancariello a fianco.
Quando poi cera da festeggiare qualche onomastico, compleanno, battesimo, fidanzamento, era tutta una festa. Ma in realtà era pure una scusa, per smettere di lavorare e divertirsi tutti assieme. Con balli, tarantelle e taniche di vino a iosa. Non cera bisogno di invito: chi si trovava a passare da quelle parti doveva solo sedersi e mangiare. Erano tutti solidali, luno con laltro.
Queste generazioni di grandi artigiani hanno negli anni costruito e donato ai propri figli e nipoti, realtà imprenditoriali rilevanti. Oggi le loro attività si svolgono nel chiuso di un capannone, o in un polo calzaturiero. Non si incontrano più. Ma continuano a lavorare con quello spirito e con quella volontà che negli anni si è tramandata da padre in figlio. Ancora oggi, fianco a fianco, padri, figli e nipoti. Ma la magia di quelle strade non cè più.
Resta solo un labile ricordo, che ogni tanto riaffiora, nei racconti di chi ha conosciuto e vissuto quellepoca semplice, umile, ma per certi versi davvero straordinaria. O vic de scarpar, dei maestri delle scarpe, quelle vere, intrise di sudore e sacrificio.
di Donato Liotto (presidente associazione New Dreams)
“O Scarpare” (D.Liotto) Io faccie o scarpare a quasi vintanne. Nun saccie o pecchè ma a mme me piace do fa. Da matina a sera, miezze a sta via, a rete o bancarielle mije, massette, e pe na jurnata intera me scord pure e majezza! Nzieme a mme, ce sta tanta gente, figli, nipote e tanta parente. O tiempe è ce salutà..e già stamm ca cap acalate.. ncopp e scarp..avimma faticà. Cert si me dimmannate e me chiedite chi to fa, fa? presto ve risponn accussì: Che gioia che prove montannne e tumaie, ncullarle e scullarle. Metterce e sole, e po a fine e tacche. Fresarle, po allurdeme apparecchiarle, lucido o nero, marrò o testa e moro. A finale ce mitte o campiglione, a cart rinta a scarp. A scarpe è pronte. Se po cunsegnà! Appena vene o Rappresentant se piglie a duzzin, Isse è cuntent, ce pave e senne va. O surore e chesta fronte e calle miezze e mane nun bastan a ce fermà. Chiste è o mestiere nuoste, sule chest sapimme fa. Perciò si maddimanate pecchè.A risposta è chesta ccà. Nui faticamm matine e sera..ca speranze che pure dimane putimme magnà!