“Dillo in italiano” è una petizione lanciata da Annamaria Testa su “Internazionale”, rintracciabile su Change.org e #dilloinitaliano, cui hanno aderito i giornalisti Michele Serra (Repubblica) e Massimo Gramellini (La Stampa) per la salvaguardia del bagaglio culturale lasciatoci dalla nostra lingua.
L’iniziativa polemizza contro l’uso eccessivo di prestiti linguistici (i cosiddetti forestierismi, parole provenienti da un’altra lingua, talvolta anche riadattate; ad esempio l’italianizzazione del verbo “chattare” dall’inglese “to chat”) da parte delle istituzioni. La petizione vuole convincere tutti ad un utilizzo maggiore della nostra lingua in ogni campo, soprattutto, politico, giuridico e giornalistico.
Nel testo ufficiale della petizione viene infatti affermato che: “La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica, il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo. […]Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole di qualsiasi lingua come meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti cominciare a interrogarci sulle parole che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e responsabilità più grandi.
Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese, hanno efficaci corrispondenti italiani. Perché non scegliere quelli?” e ancora: “Perché, per esempio, dire form quando si può dire modulo, jobs act quando si può dire legge sul lavoro, market share quando si può dire quota di mercato? Perché dire fashion invece di moda, e show invece di spettacolo?”
È vero che non si deve ritornare ad un certo movimento purista, nato in Italia nell’800 ad opera di padre Antonio Cesari per reazione all’influenza egemonica francese settecentesca, ma dall’altra parte non si deve nemmeno cadere nel paradosso di ritenere una lingua straniera migliore per l’espressione di un concetto, che potrebbe avere decisamente un corrispondente più efficace in italiano.
Perché se l’Italia ha un primato, sempre nei termini del rispetto internazionale e della globalizzazione, è quello culturale e sminuire l’identità linguistica del suo popolo è il primo segno di cedimento anche su questo campo.