E’ morto a 83 anni, dopo una lunga malattia, Bernardo Provenzano, come il capo di “Cosa nostra”. A darne la notizia è stato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia. La moglie e i figli, giunti a Milano il 10 luglio, il giorno stesso sono stati autorizzati a incontrare il loro congiunto. Arrestato l’11 aprile del 2006, dopo una latitanza di 43 anni, in una masseria di Corleone, il capomafia era detenuto al regime di 41 bis nell’ospedale “San Paolo” di Milano, dove era stato ricoverato il 9 aprile 2014, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma.
“Provenzano per me è morto quattro anni fa, dopo la caduta nel carcere di Parma e l’intervento che ha subito. Da allora il 41 bis è stato applicato ai parenti e non a lui, visto che non era più in grado di intendere e volere e di parlare da tempo”. Così il legale del boss, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, ha commentato la notizia della morte del “padrino”. La penalista, viste le gravi condizioni di salute del capomafia, negli ultimi anni aveva presentato due istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell’esecuzione della pena. Tutte sono state respinte.
A settembre 2015 la Cassazione, confermando il regime del carcere duro, aveva ammesso che condizioni di salute di Provenzano erano “gravi” ma aveva affermato che se avesse lasciato il ricovero in 41bis – all’ospedale San Paolo di Milano in camera di sicurezza – per andare in un reparto ospedaliero comune, il boss sarebbe stato “rischio sopravvivenza” per la “promiscuità” e le cure meno dedicate.
Tutti i processi in cui era ancora imputato, tra cui quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, erano stati sospesi perché il boss, sottoposto a più perizie mediche, era stato ritenuto incapace di partecipare. Grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento: è questa l’ultima diagnosi che i medici dell’ospedale avevano depositato. Nelle loro conclusioni i medici dichiaravano il paziente “incompatibile con il regime carcerario”, aggiungendo che “l’assistenza che gli serve è garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza”.