Mafia, 12 arresti contro il clan di Corleone: c’è anche il nipote di Provenzano

di Redazione

Monreale (Palermo) – “Alcuni artigiani e imprenditori che vivono e lavorano tra i paesi di Chiusa Sclafani, Palazzo Adriano e Corleone, hanno collaborato” con le forze dell’ordine, “e denunciato con l’ausilio e il supporto di Addiopizzo” le richieste di pizzo da parte della mafia. E’ quanto si legge in una nota dell’associazione antiracket, relativamente all’arresto di 12 persone legate alla mafia di Corleone.

L’operazione è stata condotta dai carabinieri di Palermo e del gruppo di Monreale e dai magistrati della procura di Palermo. “Negli ultimi due anni – prosegue la nota – l’associazione è stata impegnata accanto a diverse vittime che proprio in tali aree del Palermitano hanno maturato la forza e il coraggio di liberarsi da soprusi, minacce e richieste estorsive”.

“La straordinaria azione repressiva delle forze dell’ordine e dei magistrati e il percorso di affrancamento dal fenomeno delle estorsioni di commercianti e imprenditori sostenuto dall’associazione, mettono in luce come anche in questa area della provincia così difficile ci siano le condizioni per sgretolare il muro dell’omertà”.

“L’auspicio è che dopo questa importante operazione le persone per bene che vivono nel territorio del Corleonese possano cogliere questa ulteriore opportunità per collaborare e scrollarsi di dosso il fardello mafioso. Come in altri casi, noi cercheremo di non far mancare il nostro aiuto alle vittime, proprio perché vogliamo sostenere il vento di cambiamento che, da qualche tempo, soffia anche nelle periferie della provincia di Palermo, dove la mafia ha storicamente mantenuto forte e saldo il controllo del territorio, forse più di quanto possa riuscire a fare, ormai da tempo, in città”.

Hanno ammesso di aver pagato il pizzo. E così grazie alla loro denuncia, i magistrati hanno potuto incastrare i nuovi boss, quelli che intendevano ricostruire le trame dei corleonesi, nel paese governato da superboss Riina e Provenzano. Uno ancora in carcere, l’altro morto in cella il 13 luglio scorso.

Il nome di spicco è quello di Carmelo Gariffo, il nipote prediletto di Provenzano, il suo uomo di fiducia, l’ultimo amministratore della rete dei pizzini distesa in lungo e in largo per la Sicilia. Lui era il codice “123”, Matteo Messina Denaro, ancora oggi latitante, era “Alessio”.

Gariffo era tornato in libertà da tre anni, i carabinieri del Gruppo di Monreale e della Compagnia di Corleone lo hanno intercettato mentre parlava di appalti ed estorsioni con il nuovo reggente del clan, Antonino Di Marco, un insospettabile dipendente comunale che organizzava i summit nel suo ufficio allo stadio di Corleone.

“Basta uno, non c’è bisogno di cento”, diceva Gariffo, parlando della riorganizzazione della cosca. gariffo poteva contare su un gruppo di persone. Un allevatore, un operaio forestale stagionale, un imprenditore agricolo. Tutti legati a vario titolo al boss che intendeva ricostituire la cosca. In alcune intercettazioni, si è scoperto, alcuni di loro parlavano di un progetto di attentato nei confronti del ministro dell’interno Alfano. Due proprietari terrieri si erano invece rivolti al clan per commissionare un omicidio, eliminare un erede scomodo.

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