È stato oncologo, uomo politico, marito e padre, Umberto Veronesi, spentosi nella serata di martedì 8 novembre nella sua casa di Milano. Da alcune settimane le sue condizioni di salute si erano progressivamente aggravate.
Aveva fatto carriera proprio lì, nel capoluogo lombardo, la sua città d’origine dove aveva vissuto durante l’infanzia, soprattutto da “periferico”, crescendo nei sobborghi agricoli. Era poi passato al “centro”, rendendo Milano stessa un centro, ossia la capitale biomedica italiana.
Laico ed empirista, aveva condotto battaglie in vari campi: oncologia, eutanasia, cultura scientifica, alimentazione vegetariana. Trattando l’oncologia “all’americana”, ha permesso l’apertura, in medicina, dell’Italia al mondo.
Effettivamente, gli americani vennero da noi a sperimentare la cosiddetta terapia adiuvante per il carcinoma della mammella (la procedura di dare farmaci dopo l’intervento che ha salvato milioni di donne nel mondo) soprattutto perché negli Usa i chirurghi non volevano farlo, non volevano condividere le pazienti coi chemioterapisti e tantomeno trattarle con quei farmaci pesanti. In Italia, a Milano, gli americani trovarono un oncologo che lavorava come loro (Gianni Bonadonna), e un grande chirurgo che capì per primo al mondo che il cancro si combatte in equipe.
Veronesi è stato un innovatore perché ha guardato la malattia in senso politico: l’idea forte di quello che serve alla medicina per servire i cittadini. Alla politica Veronesi si dedicò anche in senso sociale, senza però essere troppo seguito.
Si è battuto per la creazione degli Irrcs, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ma poi ha visto con amarezza che l’idea degli ospedali di ricerca è diventata uno strumento di consenso per la politica.
Il suo più grande obiettivo è sempre stato quello di convincere la politica che la ricerca pubblica è una priorità. E, forse, almeno parzialmente, per quanto concerne l’”opinione pubblica” ci è riuscito.