Biotestamento, Crisileo: “Impossibile stabilire il limite delle chance di vita”

di Redazione

La nuova norma che consente al malato terminale di rifiutare le cure è diventata legge dello Stato. Deve essere solo promulgata dal presidente della Repubblica. Il mondo cattolico in generale e l’Associazione dei Medici Cattolici, in particolare, annunciano una ferma “obiezione di coscienza”. Anche i Vescovi esprimono dissenso. Ma perché? Perché la reputano “inadatta ai sofferenti”?

Prima di dare un’opinione in merito, vediamo, in sintesi, che cosa contempla la nuova legge. Essa prevede che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se manca il consenso informato della persona interessata. Sembra che venga “valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra il medico e il paziente, il cui atto fondante è il consenso informato” e “nella relazione di cura sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari”. Per i minori “il consenso è espresso dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore, tenuto conto della volontà del minore”. Ogni “persona maggiorenne, capace di intendere e volere, poi, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso ‘Disposizioni anticipate di trattamento’ (Dat), esprimere le proprie preferenze sui trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali”. Le Dat, sempre revocabili, sono vincolanti per il medico e devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata. In caso di urgenza, “la revoca delle Dat può avvenire anche oralmente davanti ad almeno due testimoni”.

In buona sostanza, tra il medico ed il paziente “rispetto all’evolversi di una patologia invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere attuato un pianificazione delle cure che il medico deve rispettare se il paziente incapace, in futuro, non sia nella condizione di esprimere il proprio consenso”. A far sì che si possa dare, in futuro, il consenso, o il rifiuto, a trattamenti sanitari e diagnostici (qualora appunto si diventi incapace) è necessario aver avuto informazioni sui benefici e/o rischi delle cure e degli esami.  Ma cosa debbono ancora fare i medici? Essi devono rispettare il biotestamento e possono disattenderlo solo se non corrisponde più alle condizioni cliniche del paziente, ovvero se sopraggiungono terapie che danno al paziente concrete chances di miglioramento.

Le considerazioni al riguardo sono queste: in buona sostanza questa legge se da un lato ribadisce, in un certo qual senso, il no all’accanimento terapeutico, dall’altro lato non tiene conto del principio della sacralità della vita umana in quanto il testamento biologico, pur non essendo un atto obbligatorio, ma un atto sempre revocabile non considera, a nostro avviso, che l’autodeterminazione in tema di salute è fortemente condizionata dalla soglia personale di tollerabilità dell’umana sofferenza. E non vi è dubbio – lo sottolineiamo – che la mente umana delle persone segnate dal dolore è una mente certamente narcotizzata e dà vita ad ombre che li portano ad optare, se esposti a malattie neurodegenerative, a demenze, oppure a stati di comprovata compromissione delle facoltà cognitive, per scelte finali drastiche in ordine alla propria esistenza; scelte che possono essere in antitesi rispetto ai principi in cui essi hanno creduto per una vita intera. Ed allora ci dobbiamo chiedere: per quei sofferenti, non più in grado di decidere sul proprio fine – vita, chi deciderà, per loro ed al loro posto, quando sarà sopraggiunto il momento di decidere? Sarà il medico a dover decidere in virtù delle Dat? Una risposta fredda e da leguleio dovrebbe essere che la legge appunto stabilisce questo.

Ma non possiamo rispondere in modo cosi freddo. Molti hanno scritto, nei loro commenti, al riguardo, che una norma del genere rinsalderebbe una certa forma di alleanza tra medico e paziente, perché porterebbe chiarezza sul da farsi quando le chance di guarigione per il paziente sono finite. Ci sia consentita una critica: noi useremmo innanzitutto il condizionale e non il presente (seppur presente storico) e diremmo ad esempio “quando le chance sarebbero finite”. Ed è proprio questo, a nostro avviso, il punto sensibile e cruciale della tematica: lo stabilire il momento in cui queste chance di guarigione sono (rectius, per noi, “sarebbero”). Ed allora, a tal riguardo, ci dobbiamo chiedere: ciò può essere stabilito in termini di assoluta certezza oppure resta in termini di mera probabilità? Questo è l’interrogativo-dilemma al quale non possiamo che rispondere in una sola maniera: la certezza scientifica sul punto non esiste, se non in casi eccezionali. Ma la nuova legge non fa una differenziazione tra un caso e l’altro (ad esempio non distingue un elettroencefalogramma piatto da sofferenze derivanti da patologie oncologiche e così via).

Anche per questo non ci sentiamo di condividere la ratio della norma in questione, non perché noi siamo a favore dell’accanimento terapeutico oppure perché ci allineiamo, sic ed simpliciter, ai principi cattolici, ma perché riteniamo che sia letteralmente impossibile stabilire quel limite così sottile “tra quando le chance di vita ci siano ancora, e quando dette chance non ci siano più”. Ed allora non basta l’autonomia del medico che può fare obiezione di coscienza, ma occorre un esame di coscienza generale che non può prescindere dal valore della sacralità della vita.

avvocato Raffaele G. Crisileo

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