Terrorismo, Italia prima in Ue per espulsioni jihadisti: rischio proselitismo a scuola

di Redazione

Cresce il numero dei presunti jihadisti o islamisti radicalizzati in Italia ed espulsi per motivi riguardanti i rischi del terrorismo. Il numero è nettamente maggiore a quello di tutti i Paesi dell’Unione europea. Nel 2018 la media è salita a dieci soggetti espulsi ogni mese (rispetto agli 8 al mese del 2017). Dal 2018 sono stati 105 i provvedimenti presi dal Ministero dell’Interno raggiungendo quota 340 negli ultimi tre anni.

Filo diretto dell’antiterrorismo negli istituti scolastici contro il rischio di radicalizzazione a cui sono esposti i più giovani. I servizi di intelligence del dipartimento antiterrorismo sono in costante contatto con i vari uffici Digos anche per ricevere informazioni e denunce da parte dei dirigenti scolastici sulla segnalazione di eventuali comportamenti deviati da parte degli studenti. Secondo gli investigatori, i giovanissimi sono tra i soggetti vulnerabili più esposti ai rischi di radicalizzazione.

Feste e piccoli banchetti da parte di alcuni estremisti islamici sono state organizzate nelle carceri italiane, dopo le notizie degli attentati in Europa. E’ il fenomeno su cui continua a concentrarsi l’intelligence dell’antiterrorismo, che monitora alcuni soggetti per individuare persone radicalizzate e sospetti jihadisti. Per gli investigatori italiani, le carceri restano uno dei maggiori focolai per gli estremisti, perché sono il luogo sociale dove si verifica il maggiore numero di scambio di informazioni tra le persone esposte al rischio di radicalizzazione. E’ sempre in carcere che molti radicalizzati vengono a contatto e in casi sporadici creano rapporti con esponenti della criminalità organizza, ma finora non è emerso nessun collegamento tra mafie e terrorismo islamico.

Il 3% delle persone straniere colpite in Italia da provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza riguardanti i rischi del terrorismo non viene rimpatriato nel proprio Paese e resta in Italia. Questi soggetti restano comunque costantemente monitorati nel nostro Paese. Si tratta soprattutto di persone originarie di Paesi considerati “non collaborativi” oppure dove sono presenti scenari di guerra, come Niger, Nigeria, Eritrea e Somalia.

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