Casapesenna, processo “pasticcieri di Zagaria”: Fontana smentisce dichiarazioni pentiti

di Redazione

Nell’ambito del processo nei confronti dei cosiddetti “Pasticceri di Michele Zagaria”, si è svolta stamane, innanzi al Tribunale del Riesame di Napoli, l’udienza di riesame personale contro l’ordinanza di custodia cautelare che ha disposto l’arresto di Giuseppe Santoro e Pasquale Fontana (guarda il video)

I due sono accusati di far parte del clan Zagaria e di aver favorito la sua latitanza. Fontana, attraverso i suoi legali, avvocati Guido Diana e Gaetano Anastasio, ha cercato di minare la ricostruzione dei fatti prospettata dal gip, sostenendo la genericità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e la forte inimicizia esistente tra la famiglia di Fontana ed alcuni componenti del clan Zagaria, in primis il collaboratore di giustizia Barone. Sarà, ora, il Tribunale per la Libertà a decidere se confermare o annullare l’impugnata ordinanza di custodia cautelare.

Fontana e Santoro sono titolari di noti punti vendita nel settore dolciario, denominati “Butterfly”, con locali situati su tutto il territorio campano, e gravemente indiziati del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso e del delitto di intestazione fittizia di beni, aggravata dal metodo mafioso. Secondo i risultati investigativi, supportati anche dalle dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia, gli indagati avrebbero organizzato incontri riservati con il boss Zagaria e con altri affiliati al fine di pianificare le attività del clan. Giuseppe Santoro, oltre ad ospitare Zagaria nella propria abitazione e in quella di suoi stretti familiari, avrebbe anche messo a disposizione di diversi affiliati il locale pasticceria “Butterfly” di Casapesenna per la consegna di “pizzini“ da destinare al capo clan durante la sua latitanza. Lo stesso Santoro, inoltre,  avrebbe ricevuto un grosso finanziamento da Zagaria, con cui sarebbe stato “in società”, per estendere l’attività commerciale della “Butterfly srl”, aprendo vari punti vendita sul territorio campano e napoletano, presso i quali sarebbero stati, poi, assunti diversi parenti di affiliati al clan, al fine di procurare loro un lavoro apparentemente lecito.

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