George Floyd e l’irrazionalità umana: ne parliamo con lo psicologo Giuliano Gaglione

di Redazione

di Carla Caputo – “I can’t breathe” (“Non riesco a respirare”). Queste sono state le ultime parole di George Floyd prima di morire. Parole che non sono rimaste tali ma che, colpendo il cuore di tutti, sono diventate slogan della protesta contro il razzismo per le strade del mondo e sui social. George Perry Floyd, 46enne afroamericano, è stato ucciso durante un fermo della polizia a Minneapolis, in Minnesota, il 25 maggio scorso. L’uomo ha perso la vita dopo esser stato ammanettato e steso a terra con il ginocchio del poliziotto premuto sul collo per diversi minuti.

Ad immortalare il tragico momento, un video che fatto il giro del web. David Chauvin, l’agente che ha provocato la morte di Floyd, è stato licenziato, arrestato ed è ora accusato di omicidio di secondo grado e rischia ora 40 anni di carcere. Licenziati e arrestati anche i suoi tre colleghi che erano presenti, accusati di favoreggiamento. Dinanzi a questo episodio ci siamo chiesti come sia possibile che, ancora oggi, dopo tanti anni di proteste e di, a questo punto, “falsi” passi in avanti, possa verificarsi episodi simili. Lo abbiamo chiesto a Guliano Gaglione, psicologo-psicoterapeuta originario di Frignano (Caserta), laureato in Psicologia Clinica e dello Sviluppo, con specializzazione in Psicoterapia Sistemico Relazionale.

Dottor Gaglione, cosa ne pensa del caso Floyd? Siamo di fronte ad un evento sconcertante, che purtroppo consolida, e soprattutto amplifica, l’idea che l’odio, la crudeltà e la profusione di atti malevoli facciano ancora parte della personalità umana. È come se in questo momento, nel confronto mente-cuore, prevalga quest’ultimo ma paradossalmente per questa “vittoria” si piange e non di gioia.

Come può l’essere umano spingersi a tanto? La mente umana non ha inizio né fine: è una retta, che a volte può prolungarsi ben oltre le aspettative; io posso soltanto immaginare che una persona possa compiere gesti violenti per riscattare vecchi rancori, per esprimere e sprigionare un odio per nulla giustificato, per far emergere impulsi incontrollabili. Tanti sono i motivi, tante sono le radici spinose che si intersecano lungo un’esistenza che non possono far altro che produrre frutti dannosi, velenosi, spietati, creando sull’intera razza umana un alone di un tetro grigiore.

Cosa accade in un individuo quando inizia a provare quello che noi siamo abituati a chiamare razzismo? Gli uomini che nutrono razzismo avvertono nella loro psiche un senso di non accettazione verso soggetti dalle “razze” differenti dalle proprie in quanto, possono essere state tramandate informazioni, in cui si associa alla persona “di colore” il concetto di schiavitù, sfruttamento e quant’altro. Pertanto in queste categorie di uomini è insito uno specifico: ossia, anche se una persona afroamericana potrebbe salvarti la vita, è comunque un “diverso” in senso dispregiativo. Talvolta, questa discriminazione viene celata per questioni di “senso civico”, in cui la coscienza il ragionamento ci inducono a non agire contro gli afro-americani, censurando dunque tale pregiudizio; tuttavia, quando emergono emozioni preponderanti, come la rabbia, questa censura si dissolve ed ecco che emerge la vera natura di una persona razzista. Allora ciò che non posso esimermi dal domandarmi è: “E’ più “inquietante” chi indossa la maschera del presunto integralista o di chi in realtà palesa azioni aggressive da cui si evince razzismo?”. Voglio essere chiaro, ognuno può avere le idee che calzano maggiormente con il proprio modus vivendi, ma la violenza no, non ammette giustifiche!

Possiamo dire che tale violenza sia collegata ad episodi accaduti in infanzia che hanno “turbato” psicologicamente chi compie un’azione simile? Secondo gli studi di psicologia evolutiva coloro che attuano comportamenti di tipo violento (ovviamente anche a sfondo razzista) potrebbero aver vissuto un’infanzia non idilliaca, nella quale già si respirava aria di violenza, per cui veniva trasmesso un messaggio in cui si comunicava anche con atti aggressivi, oppure, nella “geometria familiare” non erano presenti figure di riferimento che potessero trasmettere valori assolutamente opposti alla crudeltà con i rispettivi effetti.  Di solito quando si creano nuclei familiari in cui si condividono virtù quali il senso di condivisione, dialogo, accettazione incondizionata, libertà di esprimere le proprie opinioni liberamente, ma soprattutto, e questo lo vorrei scrivere a caratteri cubitali, rispetto e amore verso sé e gli altri, difficilmente si può sfociare in atti violenti, a meno che non vi siano disturbi non proprio di tipo psicologico che possono avere conseguenze anche sull’umore della persona.

Quanto la “memoria storica” e il conseguente retaggio/ bagaglio culturale influenza episodi simili? L’uomo è il risultato del binomio Natura/Cultura, per cui alcune condotte di natura aggressiva possono essere state esacerbate dal contesto in cui vive l’individuo. Io sposo un’ottica secondo cui l’essere umano deve essere sempre inquadrato all’interno di un contesto di riferimento, di tipo storico, geografico, sociale, culturale. Fondendo le caratteristiche individuali con quelle esterne emerge la personalità di un soggetto, pertanto questi tristi episodi possono assolutamente essere influenzati da un bagaglio culturale.

Manifestazioni a sostegno in tutto il mondo: come interpretiamo la “psicologia di una società” dinanzi a episodi simili? Il senso di comunità che l’uomo automaticamente crea successivamente ad eventi critici (vedasi il #celafaremo intra-Covid 19) ci rende speranzosi sul fatto che oggi, oltre alla presenza di persone che danneggiano fatalmente l’altro, esistono anche “Grandi Anime Grandi”, ossia quelli che rendono l’unione, la colleganza e la condivisione significative risorse per affrontare difficoltà che talvolta si catapultano sull’essere umano senza preavviso. Gli individui oggi camminano lungo un filo, direi una vera e propria intercapedine, che oscilla tra il buono e il cattivo, tra il giusto e lo sbagliato. Preferirei tuttavia che queste stigmatizzazioni per un attimo venissero accantonate, perché talvolta non serbano in sé le emozioni, i desideri, tutti quegli elementi che disegnano la “natura psichica” di un individuo. Dunque, per rendere l’uomo non più homini lupus ma animale sociale dotato di un’anima limpida, trasparente, direi anche libera, è necessario non chiedersi tanto: “Faccio bene? Faccio male?”, quanto: “Cosa è utile, cosa rende sereno me e il prossimo?”.

Cosa rappresentano certi episodi in una cultura? Possono portare ad altra violenza? Personalmente non posso non essere speranzoso, quindi mi appello all’intelligenza umana; questi episodi che, ripeto, sono il riflesso di una rabbia esplosiva senza eguali, divengono motivo di riflessione su quanto c’è ancora da lavorare sull’anima, sulle condotte, sul controllo dell’impulsi, sulla gestione delle emozioni, in una sola parola, sulla psiche umana. Il mio invito è quello di guardarsi dentro e scoprirsi, esplorare il proprio mondo interiore, perché la violenza, se purtroppo si verificherà ancora, sarà il frutto di un disagio che va affrontato, seguito, trattato con cura. Impariamo a prenderci cura di noi, per vivere in un mondo meno cruento. 

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