«Camorra City»? Peggio dell’Iraq

di Redazione

Carmelo BurgioCASAL DI PRINCIPE. Lo dice Carmelo Burgio, comandante dei carabinieri a Nassiriya, oggi impegnato contro la mafia nel Casertano.

Saranno i muri alti, le corti interne delle villone che ospitano le grandi famiglie della camorra casalese: opulente al loro interno, ma chiuse su se stesse, veri fortini che ricordano quelle delle campagne afghane, o quelle sparse nell’Iraq meridionale verso il delta del Tigri e dell’Eufrate. Oppure saranno l’omertà diffusa, il senso di rassegnata impotenza tra gli onesti, l’idea che se appartieni a un clan non ne puoi uscire, che anche un agente delle forze dell’ordine è in qualche modo condizionato dalle leggi del sangue. O, ancora, l’assenza dello Stato, l’impressione che le regole le detti il più forte, chi sa incutere più paura.

Sta di fatto che a girare nei borghi maleodoranti di discariche, fiumi inquinati e quartieri costruiti nel caos contro le più elementari regole urbanistiche tra la periferia di Caserta, Casal di Principe, Castel Volturno e Sessa Aurunca, viene automatico pensare ai Paesi disastrati del Terzo Mondo, alle zone di crisi in Medio Oriente, al terrore iracheno e la guerra afghana. «Con una differenza però. Qui è ancora peggio che a Nassiriya nel 2004. Là almeno gli iracheni ci dicevano grazie quando noi militari riuscivamo a catturare un bandito e portare un po’ d’ordine. Qui neppure quello.

Nel casalese ogni rappresentante dello Stato è considerato un nemico, sempre e comunque. A noi carabinieri qui nessuno dice grazie» spiega con lo stile diretto che lo contraddistingue il colonnello Carmelo Burgio, comandante dei carabinieri che operano in provincia di Caserta. Parole d’intenditore. Burgio era l’ufficiale che il 12 novembre 2003, il giorno degli attentati alla base italiana di Nassiryia, stava rilevando il comando dei carabinieri. Lo avrebbe mantenuto sino al marzo 2004. Subito dopo l’hanno mandato a Caserta. Dal caos iracheno a quello di «Gomorra». «Tutto sommato il salto è stato meno alto di quanto potessi pensare» ironizza commentando cinque anni «al fronte». Una verità evidente anche per il giornalista abituato agli scenari mediorientali. E la similitudine che salta all’occhio è quella dei clan, delle regole dei legami di sangue a scapito delle leggi della comunità. «Da queste parti la solidarietà, come nel mondo arabo, cessa fuori dalla porta di casa. Così si possono vedere ville e appartamenti puliti e perfetti all’interno, sino al cancello del giardino. Ma le vie adiacenti sono discariche a cielo aperto. Ecco perché la camorra può tranquillamente prosperare con il mercato delle scorie tossiche che arrivano dalle fabbriche del nord. Non c’è alcun senso del bene pubblico. Qui la logica trionfante impone la solidarietà dei legami famigliari contro quella dello Stato. Non si pagano le tasse perché sono governative, come non si porta il casco in moto, o non si paga l’assicurazione auto» aggiunge Burgio.

Un problema grave e delicatissimo coinvolge gli agenti delle forze dell’ordine e il loro sentimento di obbedienza alla legge. «Cosa succede se tu sei poliziotto e tuo fratello, o tuo padre, oppure un cugino, è camorrista? Vince la fedeltà tribale o il senso del dovere del pubblico ufficiale di uno Stato moderno?» si chiedono con un grosso punto interrogativo tra gli oltre 1.350 carabinieri delle 61 basi nella regione. Il tema è scottante, se ne parla poco e a bassa voce. Sono stati scoperti carabinieri e poliziotti che avvisavano «la famiglia» dell’imminenza di una perquisizione, di una retata notturna, di intercettazioni telefoniche. Negli ultimi quattro anni quasi cinquanta carabinieri sono stati licenziati, spostati di sede, o addirittura arrestati (almeno sei) per collusioni con la malavita. E una proporzione simile vale per i poliziotti (che nella zona sono circa la metà dei carabinieri). I poteri locali non aiutano. Anzi, talvolta proteggono la camorra. Non ultimi alcuni personaggi del clero. Il soggetto è bollente, un vero tabù, nessun vuole fare di ogni erba un fascio. Eppure, tra le forze dell’ordine sono in molti a conoscerlo. «Capita che i sacerdoti siano più vicini alla malavita che non agli organismi di sicurezza. In più, il loro sostegno agli immigrati illegali intralcia le nostre indagini» sussurrano tra i carabinieri. E fanno un esempio. Nel passato venne perquisita la basilica di Casapesenna, un villaggione che confina a sud con la municipalità di Casal di Principe. Si sospettava che uno dei boss latitanti, Michele Zagaria (alla macchia da dodici anni), dopo averne sovvenzionato la costruzione vi avesse scavato un covo segreto nelle fondamenta. Ma fu un blitz veloce, poco accurato, poiché intervenne il vescovo, scatenando un piccolo incidente diplomatico con la Santa Sede. Da allora le forze dell’ordine rimangono alla larga e il sospetto permane. Si trovano anche sconosciuti della lotta quotidiana alla camorra.

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Gente che rischia la vita per duemila euro al mese. È il caso, tra i tanti, dei diciassette uomini della «Sezione Catturandi» della stazione dei carabinieri di Caserta. La loro specializzazione è l’individuazione dei covi. «Negli anni Ottanta erano ricoveri primitivi, buchi coperti da tavole. Poi però la malavita casalese si è specializzata. Qui ci sono muratori provetti e le grandi famiglie ne approfittano, sicure che i loro congiunti non li denunceranno. Così si è passati a veri appartamenti-bunker con vie di fuga sotterranee, e a un pullulare di nascondigli con sistemi di sorveglianza sofisticatissimi» spiega il luogotenente Giuseppe Iatomasi. Con lui visitiamo uno degli ultimi covi scoperti, quello di Raffaele Diana, noto come “Rafilotto”, nato nel 1953 a san Cipriano d’Aversa, accusato di omicidi, estorsioni e latitante dal 2004. In realtà si tratta di due «bunker» separati. Il primo è ben nascosto nella parete a doppiofondo di un grande mobile bianco. Il secondo è una botola nel sottoscala, che porta a un pertugio di quattro metri quadri. «Nell’ultimo decennio la camorra ha creato sistemi alla Diabolik per monitorare polizia e carabinieri. Uno dei nostri metodi è gettare secchiate d’acqua sui pavimenti delle costruzioni sospette per controllare che non sparisca nei covi sotterranei. Ma loro hanno reso i pavimenti stagni, con guarnizioni che fermano il defluire dell’acqua e attutiscono i rumori» aggiunge Iatomasi mostrando le foto di uno dei covi più sofisticati. Si trovava a Sessa Aurunca, ed era nella casa di Gaetano Di Lorenzo, esponente dei cosiddetti «bardelliniani». Tramite un telecomando, il bidè scendeva su di un pistone in un piccolo pertugio nascosto nel muro, da cui con un sistema di visori a fibre ottiche si poteva controllare la strada. In un altro covo scoperto a Casal di Principe, si nascondeva Mario Iovine, assassinato in Portogallo nel 2000. Un passaggio segreto si apriva tra le bottiglie di vino in cantina e conduceva a un primo appartamento di dieci metri sotto terra. Nel caso i carabinieri l’avessero scoperto, da questo livello si scendeva a un secondo bunker, e da qui a un corridoio lungo oltre cento metri che sbucava in un’autorimessa dove erano sempre pronte una Vespa e un’auto per la fuga.

Corriere della Sera (Lorenzo Cremonesi)


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