Orari di lavoro disumani – 10-14 ore al giorno sette giorni su sette – senza rispettare le norme sui contratti e sulla sicurezza, e alloggi altrettanto disumani per i quali le vittime erano pure costrette a pagare una somma che veniva detratta dai loro stipendi, già ampiamente inferiori ai minimi di legge. Queste, in sintesi, le accuse a due pachistani residenti nel Ferrarese, finiti uno in carcere e l’altro ai domiciliari per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravata dalla minaccia e dalla violenza, il cosiddetto “caporalato”. – continua sotto –
Ad essere arrestati questa mattina dai carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile della Compagnia di Portomaggiore, nel Ferrarese, e da quelli del Gruppo Tutela lavoro di Venezia e Ferrara, coadiuvati dai colleghi del Nucleo investigativo di Ferrara e da personale dell’Ispettorato del lavoro ferrarese, sono stati due pachistani di 57 e 34 anni domiciliati nella zona di Argenta, nei cui confronti è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare. Oltre agli arresti, fanno sapere i militari, è stato eseguito “un sequestro preventivo da circa 100mila euro, vincolando sia le somme sui conti correnti usati da uno degli indagati e da cinque società a lui riconducibili, sia un appartamento di Portomaggiore intestato alla moglie di uno degli indagati e che ospitava i lavoratori in precarie condizioni igienico-sanitarie”.
Le indagini sono nate da un’attività investigativa conclusa ad aprile, che aveva portato all’arresto, per fatti analoghi, di altri tre pachistani domiciliati nel portuense. Ai due uomini arrestati oggi viene contestato “il reclutamento di manodopera per destinarla, perlopiù tramite la mediazione di società a loro riconducibili e appositamente costituite, al lavoro in aziende agricole, talvolta compiacenti, in condizioni di sfruttamento, adottando anche sistematiche condotte di violenza e minaccia”. In totale, è stato documentato “il reclutamento illecito di oltre 80 lavoratori, impiegati in diverse aziende agricole della zona e del ravennate”. Tra gli arrestati, il 57enne A.Z., riconosciuto dalle sue vittime come il capo, è finito in carcere, mentre il 34enne I.F., che svolgeva “mansioni logistiche e contabili”, è agli arresti domiciliari. I due, che agivano in concorso, sono sospettati di “essere i fornitori di manodopera, costituita talvolta da immigrati irregolari e spesso impiegati senza contratto, sulla base delle richieste di vari imprenditori agricoli”.
Numerose le condotte illecite contestate agli indagati. In primis, dettagliano i carabinieri, “la reiterata retribuzione in modo palesemente difforme dai contratti collettivi, riconoscendo al lavoratore, a fronte di 10-14 ore di lavoro giornaliere, uno stipendio di cinque euro all’ora quando la spettanza era pari a circa il doppio e intascando la differenza, pari a circa cinque euro all’ora per ogni lavoratore”. Oltre a questo, è stata riscontrata “la reiterata violazione della normativa di settore (orario di lavoro, niente riposo settimanale, nessuna aspettativa né ferie, nessuna visita medica e violazione delle norme sulla sicurezza)”. I reclutati “lavoravano sette giorni su sette, anche 16 ore al giorno con 10 minuti di pausa pranzo, senza possibilità di fare soste, neanche per bere”. Vengono poi contestate intimidazioni con “percosse e minacce ai lavoratori di non essere più chiamati a lavorare”, il “trattenimento dell’intero salario giornaliero dei lavoratori ritenuti indisciplinati”, la minaccia di ritorsioni o l’uso della violenza fisica “nei confronti di chi paventava l’intenzione di denunciare i fatti ai carabinieri”. – continua sotto –
In più occasioni “i lavoratori ‘meno efficienti’ venivano puniti con schiaffi e bastonate”, oppure veniva trattenuta parte del loro compenso. Per garantirsi il pieno controllo sui connazionali, ricostruiscono poi i carabinieri, gli indagati “mantenevano in via esclusiva i rapporti con gli imprenditori agricoli nelle cui aziende i lavoratori venivano impiegati, prevalentemente ‘in nero'”. E nei rari casi in cui “venivano formalizzati i contratti di lavoro e le spettanze venivano quindi versate mediante bonifico”, una parte della somma, pari a 5-6 euro per ogni ora di lavoro, “veniva riconsegnata in contanti dalle vittime ai ‘caporali’. Quando, invece, il pagamento avveniva totalmente ‘in nero’, l’imprenditore “da un lato effettuava direttamente il versamento al lavoratore, e dall’altro consegnava ai ‘caporali’ la quota per la loro mediazione, che anche in questo caso erodeva quasi la metà del trattamento economico dei lavoratori”.
Dalle indagini è emerso che queste condotte “si sono protratte dal 2018 fino ad oggi”, ed “è stato dimostrato che il reclutamento e l’impiego dei lavoratori non avveniva occasionalmente, ma sfruttando un modello ben strutturato”, che prevedeva “l’impiego di mezzi per il trasporto dei lavoratori nei campi e la cura di tutti gli aspetti tecnico-pratici del lavoro”. Gli stessi indagati fornivano vitto e alloggio ai connazionali sfruttati, utilizzando “abitazioni, tra cui quella sequestrata, o capannoni dismessi, in cui venivano stipate decine di persone in condizioni disumane (materassi a terra, 40-50 persone con un solo bagno e altro)”, sistemazioni per le quali, tra l’altro, le vittime erano costrette a pagare “un affitto variabile tra i 120 e i 150 euro al mese, oltre al vitto, per il quale era richiesto un importo di 95-100 euro ciascuno, trattenuto dallo stipendio”.
Il sistema, ormai rodato, si reggeva “sullo sfruttamento dello stato bisogno dei lavoratori, che necessitavano di denaro da inviare in patria, alle famiglie bisognose o a familiari ammalati, nonché sulla sottomissione degli stessi, perlopiù sprovvisti di cultura e conoscenza della lingua italiana, anche col quotidiano ricorso ad intimidazioni e vessazioni e alla costante violazione della normativa sulla sicurezza e dei diritti dei lavoratori”. – continua sotto –
Oltre a questo, è emerso “il sistematico ‘indottrinamento’ dei lavoratori sfruttati sulla versione da fornire in occasione di eventuali verifiche degli ispettori del lavoro”, e venivano date “precise disposizioni che, in caso di incidente sul luogo di lavoro, l’operaio doveva essere portato al Pronto soccorso, dove non doveva riferire le reali modalità con cui si era ferito”. Se quanto emerso dalle indagini dovesse tradursi in una condanna in sede penale, sottolineano i carabinieri, i due arrestati rischiano una pena fino a otto anni. Senza contare, ricordano infine i militari, che il reato di cui sono accusati “prevede la punibilità non solo per chi recluta, ma anche per l’impresa agricola che impiega la manodopera irregolare”. IN ALTO IL VIDEO