di Serenella Felaco (da “Osservatorio Cittadino” del 29.01.23) – Il 15 gennaio 1993 fu arrestato uno dei boss di Cosa Nostra più spietati e pericolosi, Totò Riina, detto “’u Curtu”. Riina era accusato di innumerevoli omicidi, tra cui la strage di Capaci e la strage di Via d’Amelio nel 1992 che causarono la morte dei giudici Falcone e Borsellino e degli uomini della scorsa, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, del commissario Ninni Cassarà, del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, del senatore Pio La Torre, e tanti altri. L’operazione che condusse all’arresto di Riina era stata denominata “Operazione Belva”. A distanza di 30 anni, il 16 gennaio scorso, la notizia dell’arresto del “super latitante più ricercato d’Italia”, Matteo Messina Denaro, l’uomo che in qualche modo aveva raccolto il testimone del boss. Abbiamo sentito l’allora vice comandante dei Ros di Palermo, il generale Domenico Cagnazzo, ora in congedo. – continua sotto –
Generale, in trent’anni sono stati sollevati molti dubbi sulle modalità con cui si arrivò all’arresto di Riina e su cosa avvenne nelle ore successive. Quale fu il suo ruolo? «All’indomani della strage di Via d’Amelio, dove perì Borsellino e la sua scorta, il ministro dell’Interno Mancino e il capo del Governo Amato chiesero al comandante generale di inviarmi a Palermo. Io in quel momento ero il vicecomandante dei Ros. Arrivai a Palermo alla fine del mese di luglio del 1992 come comandante in seconda e comandante operativo di tutta l’attività della Sicilia. Capii subito che Totò Riina godeva di grande protezione in tutti i campi, aveva suoi infiltrati anche nelle istituzioni. Costituii una squadra di quindici elementi della quale faceva parte anche il Capitano Ultimo (Sergio De Caprio, ndr.). Nel corso della prima riunione della squadra imposi loro il silenzio assoluto sulle attività da compiere. Silenzio che dovevano osservare anche con i propri superiori. Agli stessi promisi che entro cinque mesi avremmo potuto arrestare Totò Riina. Iniziammo tutte le attività investigative necessarie. Usammo i metodi insegnatici dal generale Dalla Chiesa. Il maresciallo Lombardo, che faceva parte della squadra ed era comandante della stazione di Terrasini (Palermo), una sera venendo nel mio ufficio mi portò il nominativo di un imprenditore, chiedendomi di farlo pedinare perché ci avrebbe portato al covo di Riina. Detti ordine alla squadra di De Caprio di pedinare il soggetto indicato, il quale effettivamente entrò in una delle sei villette che si trovavano in Via Bernini 54 a Palermo, delle quali egli era uno dei costruttori».
E quindi come si articolò l’operazione che portò all’arresto del boss? «La squadra del Capitano Ultimo mise subito sotto osservazione l’ingresso del complesso di ville dove era entrato l’imprenditore. Verso tarda sera del 14 gennaio 1993 i nostri uomini osservarono che Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina e in clandestinità con lui, era entrata nelle ville ma non era più uscita. Da ciò dedussero che in una di quelle ville doveva trovarsi nascosto Riina. Alle ore quattro del mattino fu visionato il contenuto delle telecamere che confermava quanto gli uomini avevano notato. Tutti gli uomini del gruppo investigativo presero accordi che alle ore 8 del mattino successivo avrebbero riferito i dati raccolti a me per le decisioni del caso. Il Capitano Ultimo, però, di sua iniziativa esclusiva, andò ad appostarsi all’uscita principale delle ville con una squadra di due o tre uomini. Alle otto di mattina vidi arrivare alla guida di un autovettura tale Salvatore Biondino, che sapevamo essere l’autista di Riina. Portava a bordo Totò Riina. Il capitano Ultimo e i suoi uomini seguirono l’autovettura del Biondino e dopo circa un chilometro riuscirono a bloccarla. Arrestarono quindi Riina e lo condussero nella Legione Carabinieri di Palermo. Fui subito informato dell’accaduto e replicai che avrebbero dovuto chiamarmi alle quattro del mattino subito dopo la visione del filmato delle telecamere. Solo dopo apprendemmo che quel giorno Totò Riina stava andando a presiedere la riunione di tutti i capi mandamento della Sicilia. Riina aveva ordinato ai suoi: “Se mi arrestano uccidete anche cento carabinieri ma liberatemi”. La sua custodia fu affidata a me e, data la sua alta pericolosità, lo imbarcai su un elicottero 412b dell’Arma, che atterrò nel cortile della legione, per portarlo in un carcere di massima sicurezza».
Qual è stato l’atteggiamento di Riina? «Riina disse solo nome e cognome, non proferì altra parola. Come Matteo Messina Denaro, anche Totò Riina circolava per Palermo accompagnando la moglie nella clinica dove aveva dato alla luce i suoi figli. Si allontanava raramente della zona e solo per motivi di lavoro o di cure, ma ritornava quanto prima possibile nel suo “regno”». – continua sotto –
La cattura e l’arresto di Matteo Messina Denaro, ultimo latitante della stagione stragista di Cosa Nostra, potrebbe far chiarezza su molti dei segreti di Totò Riina. Primo fra tutti, Messina Denaro, secondo alcuni pentiti, potrebbe essere a conoscenza del contenuto dei documenti presenti nel covo di Riina, trovato vuoto dai carabinieri durante la perquisizione. Lei cosa ne pensa? «Credo che Matteo Messina Denaro, anche se gravemente malato, non si pentirà. I grandi capi non si pentono mai. Continueremo a saperne ben poco e possiamo fare solo ipotesi per ora. Per quanto riguarda la perquisizione del covo di Riina, mentre con una squadra e con un magistrato stavo dirigendomi per perquisirlo, fui bloccato e tornai indietro perché il procuratore capo Caselli era stato convinto dal generale Mori e dal Capitano Ultimo a rinviare la perquisizione nella speranza che arrivassero altri latitanti e procedere così al loro arresto. Alla fine del mese di gennaio 1993, poiché il Ros non aveva dato notizie sull’esito della perquisizione del covo di Riina, chiesi loro un resoconto. Mi fu risposto che l’osservazione era stata sospesa fin dalle ore 15 del 15 gennaio e che per mera dimenticanza non avevano avvertito né me né la magistratura. Inviai immediatamente l’allora capitano Marco Minicucci dal sostituto Pignatone, ora procuratore al Vaticano, per informarlo e per acquisire l’ordine di perquisizione della villa. Così con una squadra da me capeggiata alle prime luci dell’alba del giorno successivo ci recammo al covo e trovammo l’appartamento “pulito”, con cassaforte aperta ma vuota. Era stato tutto portato via. Non si sa bene da chi, le voci sono tante».
Ci fu una “trattativa”? «Per quanto di mia conoscenza posso affermare che non c’era nessun patto tra lo Stato e la Mafia».