di Tina Cioffo e Antonio Taglialatela – E’ stato l’unico candidato italiano al “Premio Daphne Caruana Galizia” – ideato e promosso dalla vicepresidente del Parlamento Europeo, Pina Picierno – con l’inchiesta “The EU fight against child pornography stokes fears of widespread online surveillance” (“La lotta dell’UE contro la pornografia infantile alimenta i timori di una diffusa sorveglianza online”) pubblicata da importanti testate europee, tra cui Le Monde, Balkan Insight, El Diario, Domani.
Dal Niger al deserto del Sahara, dai Balcani alle rotte dei migranti nel Mediterraneo, Giacomo Zandonini ha viaggiato attraverso i confini, documentando i drammi di chi attraversa frontiere per scappare da guerre, povertà e ingiustizie. Un reporter sempre in cammino, tra deserti infiniti, mari agitati e città lacerate dalla violenza. Tra le sue tappe anche Castel Volturno, comunità della provincia di Caserta, dove confluiscono storie di migrazione, marginalità e resilienza. Un crocevia di vite in transito, di chi cerca un futuro migliore, con la speranza di ricostruire la propria vita, ma che spesso si trova intrappolato in una realtà fatta di sfruttamento, lavoro sommerso e isolamento. Eppure, tra le difficoltà, Castel Volturno è anche un luogo simbolo di associazioni locali e comunità di migranti che formano una rete di supporto e integrazione, offrendo non solo aiuto concreto ma anche uno spazio per far chi vuole farsi ascoltare e, in qualche modo, ritrovare dignità.
Abbiamo incontrato Zandonini nella sede dell’Europarlamento di Strasburgo, rivolgendogli domande sulle inchieste e sulle esperienze che lo hanno segnato lungo il suo percorso (in alto anche la videointervista).
Giacomo, innanzitutto raccontaci un po’ di te. «Io sono un giornalista freelance, mi occupo di inchieste, vivo in Italia ma lavoro molto su progetti europei, faccio parte di un collettivo che si chiama “Fada Collective”, con cui realizziamo inchieste multimediali e collaboro con diverse realtà a livello europeo, testate, progetti d’inchiesta, guardando spesso il ruolo delle istituzioni europee, delle politiche europee e l’impatto che hanno sulla cittadinanza».
Ti sei occupato di immigrazione, lavorando ad un’inchiesta su Frontex, l’Agenzia Europea per il Controllo delle Frontiere dell’Unione Europea, mettendo in evidenza come questa stesse accumulando i dati di molte persone in ingresso che attraversano le frontiere europee e trattenendoli a tempo indeterminato all’interno di un programma di sorveglianza che era stato approvato, bypassando tutta una serie di standard legali, di normative europee per quanto riguarda la privacy. Quali effetti ha prodotto? «Il fatto che il nostro team, con Apostolis Fotiadis e Ludek Stavinoha, abbia fatto emergere questo programma di sorveglianza, nato un po’ nell’ombra, quindi soggetto a poco controllo democratico, ha fatto sì che poi la stessa Frontex fosse obbligata a rivedere tutto il programma, introducendo tutta una serie di garanzie superiori per far sì che fosse allineata questa raccolta di dati di persone migranti e rifugiate in arrivo nel territorio europeo, che avvenisse secondo le norme europee, quindi una raccolta finalizzata a una specifica attività e non alla raccolta indiscriminata di massa di dati di persone che poi vengono immessi in database europei che sono numerosi e riguardano proprio persone migranti e rifugiate, con delle implicazioni forti anche sulla sorte e sul futuro della loro vita. Quindi, un’inchiesta che nel suo piccolo poi ha avuto una ricaduta pratica significativa».
Quanto è importante il giornalismo di inchiesta, anche per la salvaguardia dei diritti di coloro che hanno poca voce in Europa? «Il giornalismo d’inchiesta dovrebbe servire proprio a chi ha meno potere. E in questo caso, se pensiamo all’Europa di oggi, una grande popolazione che ha pochissimo potere è quella di persone migranti e rifugiate, soprattutto di chi arriva e entra nel territorio europeo. Quindi si trova spesso dentro una macchina burocratica estremamente complessa, con pochissimi diritti, con molti rischi per la propria vita, anche dentro il territorio europeo, nonostante già si sia passati spesso da molte situazioni difficili, drammatiche».
Nel tuo lavoro di giornalista d’inchiesta, c’è stato qualche episodio o anche qualche situazione che hai raccontato che ti ha particolarmente toccato? «Chiaramente nel lavoro sul campo mi è capitato di condividere un piccolo pezzo di percorso con persone che vivevano situazioni estremamente forti, pesanti, drammatiche, soprattutto viaggiando attraverso confini, cosa che ho potuto fare con il mio passaporto italiano-europeo, insieme a persone che invece non potevano farlo. Ho lavorato molti anni in Niger, ho viaggiato per alcuni giorni lungo delle piste sahariane negli ultimi anni, ho lavorato nei Balcani, ho lavorato nel Mediterraneo, anche con alcune organizzazioni che fanno ricerca e soccorso. Quindi, chiaramente, tutti questi incontri hanno contribuito a dare un aspetto fortemente anche umano dell’idea di come delle politiche decise qui a Strasburgo, a Bruxelles, nelle capitali europee, hanno un impatto forte sulla vita di persone anche a distanza di migliaia di chilometri».
Ti è capitato di lavorare anche su Castel Volturno, una cittadina della provincia di Caserta, meta di tanti migranti. Cosa ne hai tratto da quell’esperienza? «A Castel Volturno ho potuto incontrare molte persone soprattutto della comunità nigeriana e in qualche modo fare un collegamento tra lavori che ho realizzato in Nigeria, in Niger, in Ghana, quindi nei loro paesi di origine. E questa esperienza mi ha aiutato anche a cogliere alcuni aspetti importanti della realtà sociale di Castel Volturno, con moltissime storie personali e dinamiche sociali e politiche complesse che meritano molto approfondimento. In qualche modo mi ha colpito il fatto che Castel Volturno, per una serie di motivi, fosse diventato un luogo di ritrovo e di ospitalità in condizioni spesso molto difficili, precarie, di persone espulse da diverse situazioni, anche in Italia e in Europa. O persone in transito, tra cui molti braccianti sfruttati meccanismi di caporalato che si muovono attraverso l’Italia, soprattutto del centro-sud, e fanno riferimento a Castel Volturno. Quindi, una casa precaria in cui con pochissimi diritti, però, si creano e ricreano alcuni meccanismi anche di solidarietà, pur in un contesto anche segnato da violenza, da criminalità organizzata, da sfruttamento del lavoro e della prostituzione. Ad esempio, mi ha colpito la realtà di un asilo informale in cui i figli e le figlie di donne che, o in viaggio o fuori per motivi di lavoro, spesso sfruttate, immagino anche nella prostituzione, erano in qualche modo tenute da una signora nigeriana che garantiva un servizio che mancava evidentemente in modo molto informale e con un clima di accoglienza, proprio quello che ho potuto vedere forte». IN ALTO IL VIDEO