Mentre gli aversani discutono la loro città viene espugnata

di Redazione

Mozzarella di BufalaAVERSA. Lo so, è sempre spiacevole parafrasare nei titoli citazioni latine, ma questa volta, ne converrete, non potevo assolutamente farne a meno. Tito Livio, nelle sue Storie scriveva: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata). Esattamente quello che è accaduto ad Aversa.

Mentre i commercianti aversani perdono giornate intere in discussioni interminabili sull’apertura del Centro Commerciale nell’area ex Texas Instruments o sull’opportunità di creare un’isola pedonale in Via Roma o in Via Diaz, ci sono imprenditori (non aversani) che riescono a “vendere i frigoriferi agli eschimesi”. Dal 12 settembre scorso, infatti, in Via Diaz (guarda caso) si è aperto uno “slowfood” specializzato nella vendita di prodotti tipici campani ed, in particolare della mozzarella di bufala. Sapete, però, la mozzarella venduta nel Bocconcì aversano da dove viene? Da Battipaglia! Incredibile ma vero, ad Aversa, la patria dei latticini, si vende mozzarella battipagliese!

Un autentico smacco all’intera filiera produttiva aversana che, diciamolo pure, si è fatta ingloriosamente “battere” in casa con un clamoroso 1 a 0. Intendiamoci, però, non abbiamo assolutamente niente da recriminare contro l’imprenditore che ha deciso di aprire il locale in franchising ad Aversa. Fa, giustamente, e con bravura il proprio mestiere. Nulla da dire al riguardo, se non augurargli il massimo del successo. Sui produttori di mozzarella aversana, invece, ci sarebbe ben altro da dire e da augurare. Pur avendo un marchio “originario”, conosciutissimo ed apprezzato in tutto il mondo, le loro fertilissime menti sono riuscite a partorire solo un’iniziativa denominata: Oro Bianco. La cosa ancora più grave è che, questo schiaffo morale, sarà pubblicizzato in tutto il mondo. Il titolare del Gruppo fondatore della catena, che ne detiene il marchio al 100 per cento, ha più volte dichiarato di voler esportare i propri “ristoranti che non necessitano di una cucina” in ogni angolo del pianeta (ricalcalcando il modello americano dei McDonald’s). Quando questo accadrà, tutti sapranno che oltre ad essere venduta a Roma, a Napoli, a Pisa, in Spagna, a Malta ecc. la mozzarella batttipagliese, essendo così buona, è venduta persino ad Aversa. Non c’è che dire: una gran bella figura di…latte!

Eppure, da quando nel 1993, alla mozzarella di bufala campana fu riconosciuto il marchio D.o.p. (Denominazione d’origine protetta) di tempo n’è passato. Le bufale ne hanno fatto di latte. I nostri imprenditori caseari, che pure vendono in tutto il mondo (da New York a Los Angeles, da Londra a Parigi ecc.) quantitativi minimi rispetto alle enormi potenzialità del mercato, non hanno ritenuto, però, necessario investire sul brand “Mozzarella d’Aversa” che, fino a qualche decennio fa era sinonimo di mozzarella di bufala. E chi mastica un minimo di marketing sa benissimo che quando un prodotto viene identificato con il nome del fabbricante il successo è assicurato. Ne sa qualcosa la Kleenex diventata sinonimo di fazzoletto di carta, la Tampax diventata sinonimo d’assorbente, la Simmenthal sinonimo di carne in scatola ecc. Il problema reale che nessuno, dico nessuno, ha realmente capito il valore concreto (esprimibile in milioni d’euro) della dimensione emozionale del marchio Mozzarella d’Aversa o Mozzarella di bufala di Aversa. Se fosse stato americano, a Totò, per ringraziarlo della famosa scena del film Miseria e Nobiltà, dove parla di mozzarella d’Aversa, avrebbero certamente eretto statue ad ogni angolo di strada.

Chiunque si occupi di marketing, infatti, sa cosa sia il “marketing emozionale” (una branca che studia il ruolo delle emozioni nel comportamento del consumatore). Nei processi d’acquisto, infatti, l’associazione tra emozioni e brand (marca emozionale/branding emozionale) è l’obiettivo primario da raggiungere. Di solito quest’obiettivo si raggiunge con investimenti miliardari in dollari.

Gli aversani avevano, invece, già ampiamente raggiunto (gratis) quest’importante mèta e se la sono fatta “scippare”. Come definire questo comportamento: accidia? Per fortuna, non è ancora tutto perduto, ma bisogna rimboccarsi le maniche, parlare poco e agire subito. Agli imprenditori caseari aversani vorrei solo ricordare il terzo canto dell’Inferno dantesco e la pena che veniva inflitta agli ignavi. “A buon imprenditor, poche parole”.

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