Sanità sprecona, nessuno sconto dal Governo alle Regioni

di Gennaro Pacilio

 ROMA. Nessuno sconto e nessuna deroga per le Regioni con i conti della sanità in rosso. Quattro di queste dovranno abbattere il debito e per farlo, non potranno che aumentare le imposte.

A pagare la cattiva gestione delle giunte saranno cittadini e imprese con aumenti che vanno dai 30 euro in media di Irpef ai 95-300 euro di Irap. Il compito ingrato di attuare la stretta fiscale tocca ai governatori di Lazio, Campania, Calabria e Molise, Renata Polverini, Stefano Caldoro, Giuseppe Scopelliti e Michele Iorio. I primi tre approdati al governo delle rispettive regioni dopo i disastri lasciati dalle giunte precedenti, il quarto al governo dal 2006 con l’attenuante di aver dovuto gestire un’eredità pesantissima.

I ministri Tremonti e Fazio hanno così lanciato un monito a tutte le amministrazioni decentrate: d’ora in avanti non saranno più ammessi né tollerati comportamenti non virtuosi e chi continua ad agire al di fuori del patto di stabilità dovrà renderne conto non tanto al governo nazionale, ma agli elettori, che saranno chiamati a ripianare i debiti fatti dalla politica e sicuramente non daranno più il voto ai responsabili delle situazioni di dissesto. Il governo ha anche pronunciato un nettissimo no di fronte alla richiesta di utilizzo dei fondi Fas (i finanziamenti europei per le aree sottoutilizzate) da parte delle Regioni in rosso sulla sanità. I fondi Fas, infatti, non possono essere utilizzati come un bancomat.

I governatori, che si trovano a gestire una situazione difficilissima, di cui non hanno alcuna colpa, hanno manifestato qualche perplessità, denunciando il rischio di imposizione di nuove tasse a carico dei contribuenti in questo momento di crisi. Ma è chiaro che, proprio per tenere l’Italia sopra la linea di galleggiamento nella bufera finanziaria in atto, è necessario il massimo rigore a tutti i livelli nella tenuta dei conti, e dunque le Regioni, per poter accedere ai fondi Fas, devono prima approvare un serio piano di rientro dal deficit.

La stretta decisa dal governo nei confronti delle Regioni sulla Sanità pone rimedio a una gravissima anomalia del nostro sistema fiscale: la pressoché completa dissociazione tra la facoltà di spendere soldi pubblici e la responsabilità di reperire le risorse per finanziare tali spese. In Italia circa metà della spesa pubblica – escluse pensioni e interessi – è di competenza degli enti territoriali e per la restante metà dello Stato.

Per quanto riguarda le entrate, invece, gli enti raccolgono meno del 20 per cento e lo Stato si deve accollare il restante 80 per cento. La copertura delle spese degli enti – di cui la sanità è la voce più rilevante – è per la più parte finanziato da risorse “derivate” dallo Stato. E’ chiaro che questo meccanismo disincentiva i politici locali a controllare e razionalizzare la gestione della sanità.

Spendere sul territorio per prestazioni sanitarie accresce infatti il consenso elettorale a livello locale, mentre a pagare i costi sono tutti i contribuenti a livello nazionale. Da ora in poi, invece, viene di fatto stabilito un controllo diretto dell’elettore “regionale” sui suoi amministratori, ponendo così fine alla stagione dei furbi. In pratica è questo il federalismo fiscale di cui tanto si parla.

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