AVERSA. Caro Direttore, a seguito della lettera-appello sottoscritta da Antonio Della Gatta, Raffaele Maisto, Antonio De Chiara, Alberto Coppola e Raffaele Ferrara, mi sento quasi in dovere di inviarti una piccola riflessione, sperando che sia utile quale contributo alla discussione.
Siamo di fronte ad uniniziativa che non può non essere presa in considerazione. Il momento storico che stiamo vivendo vede lAgro Aversano al livello forse più basso della sua millenaria storia. Nella nostra zona siamo scesi un gradino al di sotto della civiltà. Non possiamo non riconoscerlo. Lo ha detto qualche settimana, in occasione di unintervista a LEspresso, anche la responsabile per il Mezzogiorno di Confindustria, quella Cristiana Coppola, progenie di una stirpe che ha collaborato non poco al degrado attuale, soprattutto sul litorale domitio. Una presa datto, una consapevolezza che fa ben sperare nelle giovani generazioni. Come fanno ben sperare le parole dei cinque firmatari dellappello. Anche se, in verità, è scritto quasi a modo di letterina natalizia o supplica alla Madonna di Pompei. Rimane il senso forte, il sentimento di una volontà di rinnovarsi.
Una volta tanto non facciamo dietrologia. Non andiamo a guardare se è stata la voglia di protagonismo di qualcuno dei firmatari a smuovere la coscienza. Credo che sia importante, invece, rilevare che qualcuno si muove dallinterno di questa Terra martoriata. Non vorrei sbagliare, ma siamo alla prima volta in assoluto, se si eccettua il famoso documento dei sacerdoti della Forania di Casal di Principe, Per amore del mio Popolo, ispirata dal mai dimenticato amico e piccolo eroe Peppino Diana, che qualcuno si rivolge ai cittadini dellAgro Aversano per farli smuovere dal torpore che ha consegnato la nostra Terra allinciviltà. Cè un ventre molle, quelli che in molti si ostinano a definire maggioranza silenziosa, che si barrica dietro alle porte della propria casa, limitandosi a sortite in qualche boutique di marca o presso qualche famiglia amica, e crede di poter così fuggire dallinferno che ci circonda. Non è questo un vivere civile, anzi il vivere, senza attributi o appellativi.
Il male maggiore (e ti prego di non fraintendermi, non voglio affatto minimizzare il fenomeno, anzi) non è la camorra in sé, ma la cultura che la camorra ed i camorristi sono riusciti ad instillare in ognuno di noi. Basta porre lo sguardo intorno a noi. Guardare come ci comportiamo, anche quelli più miti, civili e ben educati di noi, quotidianamente, nei rapporti con gli altri. E la tracotanza, la mancanza di un minimo senso di collettività, di difesa degli interessi comuni (e non particolari) che ci ha condotto alla situazione attuale. Attenzione, non intendo affatto fare qui un discorso ideologico.
Purtroppo, la realtà ci ha insegnato che la mentalità camorristica, la cultura della sopraffazione (non solo fisica, ma anche quella psicologica più sottile, nascosta, e quella comportamentale più crassa e materiale) non ha colore politico. Rossi, neri, azzurri, verdi. I colori non interessano. Dobbiamo guardare agli uomini e dobbiamo dare una sterzata alla nostra vita. Dobbiamo farlo ognuno di noi, non pensando che tanto nel nostro piccolo non possiamo fare nulla, che tanto non cambieremo niente.
Cè un detto dei nostri nonni che mi sovviene in questo frangente Tanti niente ammazzano lasino, per dire che tanti piccoli pesi possono uccidere lasino: tante nostre piccole azioni possono farci tornare nel mondo civile.
Nicola Rosselli